di Alessandro Morelli
Nella dichiarazione che ha fatto seguito alle ultime consultazioni, svoltesi lo scorso 7 maggio, il Presidente Mattarella, dopo avere ricostruito i diversi tentativi di dare vita a un Governo, portati avanti senza successo nel corso degli ultimi due mesi, ha illustrato la soluzione verso la quale, alla fine, ha deciso di orientarsi: quella di dare vita a un “Governo neutrale, di servizio”, conferendo l’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri a una personalità non di parte. Un Governo neutrale nei confronti di tutte le forze politiche in campo: “Laddove si formasse nei prossimi mesi una maggioranza parlamentare – ha spiegato il Capo dello Stato –, questo Governo si dimetterebbe, con immediatezza, per lasciare campo libero a un Governo politico. Laddove, invece, tra i partiti, in Parlamento, non si raggiungesse alcuna intesa, quel Governo, neutrale, dovrebbe concludere la sua attività a fine dicembre, approvata la manovra finanziaria per andare subito dopo a nuove elezioni”.
Si tratterebbe, dunque, di un “Governo di garanzia”, i cui componenti dovrebbero assumere l’impegno di non candidarsi alle prossime elezioni. Qualora non riuscisse ad ottenere la fiducia delle Camere, tale Governo avrebbe comunque il compito di traghettare le istituzioni verso una nuova competizione elettorale, che dovrebbe avere luogo appena possibile.
Le reazioni dei leader del Movimento 5 Stelle e della Lega non si sono fatte attendere. In entrambi i casi si è opposto un netto rifiuto alla proposta del Presidente, peraltro con modalità (attraverso i social network) e con toni non certo rispettosi dei doveri di correttezza istituzionale: “Nessuna fiducia a un Governo neutrale, sinonimo di Governo tecnico – ha dichiarato Di Maio –. Si vada al voto a luglio”. E Salvini: “Mattarella vuole un ‘Governo neutrale’? Per carità, serve un Governo coraggioso, determinato e libero, che difenda in Europa il principio ‘prima gli italiani’, che difenda lavoro e confini, altro che governino per tirare a campare. Per me, o si cambia o si vota!”.
Sulla soluzione messa in campo da Mattarella si è subito aperto un acceso dibattito e da più parti ci si è chiesti se davvero non ci fossero alternative a un “Governo del Presidente”. In particolare, nel corso delle ultime consultazioni, Salvini aveva chiesto che gli fosse affidato l’incarico di Presidente del Consiglio per poi andare a cercare in Parlamento i voti mancanti per ottenere la fiducia.
Riguardo a quest’ultima proposta, il Presidente della Repubblica, nella dichiarazione del 7 maggio, ha chiarito la propria posizione, precisando che sin dall’inizio delle consultazioni aveva escluso che si potesse dar vita a un “Governo politico di minoranza”, che avrebbe condotto alle elezioni: in queste condizioni – ha affermato il Capo dello Stato – è “più rispettoso della logica democratica che a portare alle elezioni sia un Governo non di parte”.
Per capire esattamente cosa abbia inteso dire il Presidente e per verificare l’effettiva praticabilità di soluzioni alternative, occorre fare un po’ di chiarezza sui diversi strumenti ai quali Mattarella è ricorso in questi due mesi e su quelli che avrebbe potuto (ma che non ha potuto) utilizzare.
Una premessa è d’obbligo: riguardo al procedimento di formazione del Governo, la Costituzione dice davvero poco ed è, dunque, necessario fare riferimento a prassi, a regole non scritte e a precedenti, che ovviamente acquistano un peso di volta in volta diverso in base ai contesti.
Vediamo, innanzitutto, le previsioni costituzionali: l’articolo 92 (secondo comma) stabilisce che è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. L’articolo 93 prevede, poi, che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. L’articolo 94, infine, per quel che ci riguarda, prevede che il Governo deve avere la fiducia delle due Camere e che ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione (che si fa coincidere con il giuramento dei suoi componenti) il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.
La Costituzione non dice altro sulla formazione del Governo e, in particolare, su cosa debba fare il Capo dello Stato quando, come nel nostro caso, le elezioni non abbiano dato a nessuna delle forze politiche in campo la maggioranza parlamentare necessaria a legittimare la nascita di un nuovo Governo (come si è ricordato in altra occasione, il ruolo del Presidente cambia in base al sistema elettorale e alla situazione politica contingente).
Nel corso dell’esperienza repubblicana (e, in particolare, in quella segnata dalla vigenza di un sistema elettorale prevalentemente proporzionale), si sono affermate alcune prassi, alle quali i Presidenti della Repubblica hanno fatto riferimento nei momenti d’incertezza. In base a tali prassi, il Capo dello Stato svolge una serie di consultazioni e può avvalersi di alcuni strumenti funzionali ad acquisire informazioni utili alla formazione di un Governo in grado di ottenere la fiducia delle Camere: tali strumenti sono il mandato esplorativo e il preincarico.
Il mandato esplorativo è attribuito dal Capo dello Stato ad una personalità al di sopra delle parti – fino a questo momento, il Presidente del Senato o quello della Camera – allo scopo di proseguire e integrare l’attività istruttoria già svolta dal Presidente della Repubblica. Il preincarico, invece, viene conferito a chi il Capo dello Stato ritenga di dover poi affidare il vero e proprio incarico di Presidente del Consiglio, qualora si confermi la sussistenza delle condizioni necessarie alla formazione del Governo.
Il preincaricato, nella veste di candidato in pectore, potrà svolgere, infatti, consultazioni più ristrette ed acquisire elementi utili allo scopo di formare il nuovo Governo (ricordiamo tutti lo sfortunato preincarico affidato a Pierluigi Bersani nel 2013 e le consultazioni in streaming con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle). Com’è evidente, il preincarico non è un vero incarico: fintantoché il Presidente della Repubblica non conferisce a una nuova personalità l’incarico di Presidente del Consiglio, il precedente Governo continuerà a svolgere le proprie funzioni, seppure limitatamente all’ordinaria amministrazione. Il Governo, infatti, non è un organo a termine (come, invece, lo sono le Camere, che durano cinque anni), ma cessa al verificarsi di determinate condizioni (politiche, come l’approvazione di una mozione di sfiducia o il voto contrario su una questione di fiducia, o non politiche, come la morte del Presidente del Consiglio o la cessazione o la sospensione dalla carica di quest’ultimo per motivi riguardanti la sua persona).
Quando il Capo dello Stato nomina il nuovo Governo, questo, entro dieci giorni dal giuramento, si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non la ottenga, il Governo nominato deve dimettersi, rimanendo in carica, come Governo dimissionario, per il disbrigo degli affari correnti, fino a quando un altro Governo non prenderà il suo posto. Tale ipotesi si è verificata, finora, nella storia repubblicana in cinque casi: nel 1953, con l’ultimo Governo De Gasperi; nel 1954, con il primo Governo Fanfani; nel 1972 e nel 1979, rispettivamente con il primo e con il quinto Governo Andreotti e, nel 1987, con il sesto Governo Fanfani.
Tornando all’attuale situazione, si può notare che il Presidente Mattarella finora si è avvalso correttamente, nel rispetto dei precedenti, degli strumenti a sua disposizione.
Il 18 aprile, a poco più di un mese dalle elezioni, dopo le prime consultazioni (che hanno subito mostrato la complessità della situazione), il Capo dello Stato ha dapprima affidato al Presidente del Senato un mandato esplorativo per verificare la possibilità di trovare un accordo, funzionale alla formazione di un Governo, tra il Centrodestra e il Movimento 5 Stelle. Il 20 aprile, alla scadenza del mandato, il Presidente del Senato ha comunicato al Capo dello Stato che il tentativo non aveva avuto esito positivo.
Un secondo mandato esplorativo è stato affidato il 23 aprile al Presidente della Camera, questa volta allo scopo di verificare la possibilità di un accordo tra il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico. Il 26 aprile, il Presidente della Camera ha dichiarato che l’esito di questo secondo mandato era positivo, lasciando intendere che l’ipotesi di una maggioranza politica fosse prossima a concretizzarsi. L’ipotesi, tuttavia, è definitivamente naufragata, il successivo 2 maggio, con l’approvazione da parte della Direzione del Partito Democratico della relazione del Segretario Martina, nella quale si è esclusa l’ipotesi di formare maggioranze sia con il Movimento 5 Stelle sia con il Centrodestra.
In seguito al fallimento di tali tentativi, Salvini ha chiesto al Presidente Mattarella che gli fosse attribuito non già un preincarico ma un incarico pieno, “al buio” (senza poter garantire in alcun modo il raggiungimento della necessaria maggioranza), in forza del fatto che egli è il leader della coalizione che, pur non avendo i numeri per governare, ha ottenuto il più ampio consenso elettorale. Sulla base di tale incarico, Salvini sarebbe andato a chiedere la fiducia alle Camere e, qualora non l’avesse ottenuta, si sarebbe dovuto dimettere. Avrebbe così affrontato la successiva campagna elettorale in una posizione privilegiata: quella di Presidente del Consiglio dimissionario.
Nella dichiarazione del 7 maggio, Mattarella ha chiarito che a guidare questa fase transitoria è bene che sia un “Governo non di parte”, usando un ossimoro (posto che ogni Governo è sempre “di parte”) che in realtà vuole dire una cosa ben precisa: un incarico affidato a Salvini, allo stato, non avrebbe risolto il problema (giacché se ci fossero state le condizioni per formare un Governo di Centrodestra, queste sarebbero già emerse dalle consultazioni e dai mandati esplorativi) ma avrebbe avuto quale principale, se non unico, effetto quello di riconoscere al leader della Lega il ruolo di “quasi vincitore delle elezioni”, introducendo così un fattore di squilibrio nella prossima competizione elettorale.
Perché allora non lasciare al suo posto il Presidente Gentiloni? Mattarella, nel suo intervento, spiega anche le ragioni di tale scelta: il Governo Gentiloni ha esaurito “la sua funzione e non può ulteriormente essere prorogato in quanto espresso, nel Parlamento precedente, da una maggioranza parlamentare che non c’è più”. Insomma, il vecchio Governo non ha più ragion d’essere perché ha del tutto esaurito la propria rappresentatività.
La soluzione di Mattarella offre altro tempo al confronto tra le forze politiche, nella speranza che si giunga ad una sintesi in grado di dare un Governo al Paese, e, nella peggiore delle ipotesi, tende a garantire che lo svolgimento delle prossime elezioni abbia luogo in condizioni paritarie. Una soluzione articolata ma ragionevole, dunque, con cui si tenta di superare uno stallo politico-istituzionale che non ha precedenti. Una proposta, questa, che non può certo essere bocciata come la stanca riproposizione dell’ennesimo “Governo tecnico”.
Il Presidente della Repubblica, oltre ad essere il Capo dello Stato, come recita l’articolo 87 della Costituzione, è anche il rappresentante dell’unità nazionale e deve promuovere il superamento da parte delle forze politiche dei propri interessi particolari in funzione del bene comune. La soluzione proposta da Mattarella può non piacere, ma è frutto di un corretto esercizio di questo ruolo.
1 commento su “Mandati esplorativi, incarichi e preincarichi: di cosa stiamo parlando?”