di Sandro De Nardi*
Sono trascorsi settant’anni da quando l’allora Capo dello Stato – Enrico De Nicola – promulgò (sic) in quel di Napoli il decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 535, recante «Foggia ed uso dell’emblema dello Stato»: ed è proprio tramite il provvedimento normativo appena citato che è stato formalmente adottato uno dei simboli identificativi dell’Italia repubblicana (l’emblema, per l’appunto), nella versione grafica che pochi mesi prima era stata approvata con apposita deliberazione dall’Assemblea costituente.
L’Assemblea – “al termine di un percorso creativo durato ventiquattro mesi, due pubblici concorsi e un totale di 800 bozzetti, presentati da circa 500 cittadini, fra artisti e dilettanti” – optò alla fine per il bozzetto che era stato idealmente concepito e materialmente realizzato dal pittore piemontese Paolo Paschetto (cfr. in tal senso quanto si riferisce nel sito istituzionale della Presidenza della Repubblica – all’indirizzo http://www.quirinale.it/qrnw/simboli/emblema/emblema.html – al quale ci si permette di fare rinvio per ulteriori approfondimenti sul tema).
Trattasi dunque di un anniversario che, perlomeno a giudizio di chi scrive, è senz’altro meritevole di essere ricordato: ed il modo migliore per rendere omaggio alla (saggia) scelta che illo tempore venne compiuta dai Costituenti e che li indusse a scartare molte altre proposte che erano state sottoposte alla loro valutazione (alcune delle quali sono riprodotte nel volume curato dalla Camera dei deputati, 50° anniversario della Repubblica italiana, Roma, 1996, pag. 62 e ss.), sembra quello di richiamare l’attenzione sugli elementi che lo contraddistinguono e soprattutto sul significato che agli stessi va riconosciuto. D’altra parte, sotto quest’ultimo profilo sia consentito nutrire dei dubbi in ordine alla effettiva e generalizzata conoscenza/riflessione sulla valenza sostanziale che, oltre le apparenze, spetta al segno distintivo in esame: il tutto, ancorché lo stesso possa oramai dirsi definitivamente entrato a far parte dell’immaginario e del patrimonio collettivo, essendo un simbolo che giocoforza viene frequentemente visionato non solo da una ristretta cerchia di “addetti ai lavori” ma dall’intera cittadinanza, nella misura in cui risulta riprodotto in una miriade di atti, documenti ed oggetti che sono d’uso o consumo comune (basti pensare – tanto per fare qualche esempio – alla tessera sanitaria, alla patente di guida, al passaporto, oppure al contrassegno che viene apposto sulle bottiglie delle bevande alcoliche o sulle confezioni di sigarette).
Ora, chiunque si soffermi ad osservare con scrupolo l’icona nazionale di cui qui si va discorrendo può facilmente constatare che sono 4 gli elementi che la caratterizzano: in concreto vi figurano la stella e la ruota dentata che sono racchiuse da due elementi botanici, vale a dire da un ramo di ulivo e da un ramo di quercia che, a loro volta, sono legati assieme da un nastro recante la scritta – in carattere capitale – “REPUBBLICA ITALIANA”; occorre poi sottolineare che ciascuna delle componenti strutturali appena elencate – sempre stando a quanto si può leggere nel sito del Quirinale – è stata inserita in quel disegno (non certo casualmente, bensì) perché destinata ad incarnare in forma simbolica quanto segue:
1) la stella “è uno degli oggetti più antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla personificazione dell’Italia, sul cui capo essa splende raggiante. Così fu rappresentata nell’iconografia del Risorgimento e così comparve, fino al 1890, nel grande stemma del Regno unitario (il famoso stellone)”;
2) la ruota dentata d’acciaio è il simbolo dell’attività lavorativa;
3) il ramo di ulivo – che chiude a sinistra l’emblema – “simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale”;
4) il ramo di quercia – che chiude a destra l’emblema – “incarna la forza e la dignità del popolo italiano”.
Stando così le cose, se volessimo azzardare una sommaria lettura in chiave giuridica di quanto in esso risulta raffigurato in modo diretto e/o in controluce, potremmo spingersi ad affermare che, a ben vedere, l’emblema repubblicano sembra esprimere una felice sintesi di taluni principi fondamentali – codificati nella Costituzione del 1948 – che connotano la nostra forma di Stato democratica, e cioè: il principio lavorista, il principio pacifista, il principio pluralista, il principio personalista ed il principio solidarista. Non solo. Difatti, sempre in argomento occorre tener conto di quanto alcuni anni orsono ha significativamente sentenziato la Corte costituzionale nel giudicare un conflitto di attribuzione che il Governo aveva sollevato nei confronti della Provincia autonoma di Bolzano, contestandole di aver illegittimamente deliberato l’eliminazione della denominazione e dell’emblema della Repubblica italiana dai modelli degli attestati, dei diplomi e delle certificazioni per le scuole secondarie di primo e secondo grado: i giudici di Palazzo della Consulta – dopo aver comunque qualificato come “insindacabile” e “del tutto opportuna” la scelta ministeriale di far apporre, per esigenze unitarie, l’emblema nazionale sulle certificazioni scolastiche aventi finalità di attestazione – hanno annullato il provvedimento provinciale impugnato perché ritenuto incostituzionale, e per pervenire a tale conclusione hanno (condivisibilmente) affermato che la scelta dell’amministrazione provinciale si poneva “in particolare” contrasto pure ,con il parametro di cui all’art. 5 della nostra Legge fondamentale, nella parte in cui reca il principio supremo di unità ed indivisibilità della Repubblica italiana (cfr. Corte cost., sent. n. 328/2010, punto 4. del Considerato in diritto, in www.cortecostituzionale.it).
Dunque, con la decisione appena ricordata l’organo di giustizia costituzionale sembra aver contribuito – con l’autorevolezza che gli è propria – a rafforzare ulteriormente il valore evocativo ed il prestigio stesso del segno distintivo in parola: la cui reale portata, anche secondo la Corte, non va individuata soltanto alla luce dei meri “segni” materiali che lo caratterizzano.
Ebbene, se è così possiamo allora concludere questi brevi cenni affermando che il bozzetto che settant’anni fa è stato scelto ed approvato dall’Assemblea costituente – con la lungimiranza che era propria di molti componenti di quel consesso – porta con sé una capacità allusiva che, nel contempo, è ancor oggi straordinariamente attuale e di sicura valenza anche per il futuro: perché, in fondo, suo tramite è (o dovrebbe essere) richiamata alla memoria di chiunque si vi imbatta una tavola di valori supremi della convivenza civile che dovrebbero essere da tutti condivisi e – per quanto di rispettiva competenza – quotidianamente attuati (con condotte ed atti conseguenti), tanto dalle istituzioni repubblicane, quanto dal popolo italiano. Del resto, nella parte in cui il simbolo patrio reca l’esplicita dicitura “REPUBBLICA ITALIANA” vi è un sicuro riferimento non solo – non soltanto – alla pluralità di enti (ed organi) che istituzionalmente la compongono, ma anche – e forse soprattutto – alla comunità di donne e uomini che fanno parte della società politica organizzata e che di essa sono parte integrante.
Insomma, l’emblema della Repubblica italiana non è soltanto un simbolo del potere: è qualcosa di più, che riguarda la cittadinanza tutta. Sarebbe il caso di non dimenticarlo: ed anzi di celebrarne il settantesimo genetliaco.
* Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico nella Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova (sandro.denardi@unipd.it)