Cultura della vita e cultura della morte: interrogativi sul caso del piccolo Alfie Evans

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di Ugo Adamo*

La dolorosa vicenda del piccolo Alfie Evans ha riproposto la dicotomia falsa tra una (non meglio precisata) cultura della morte e una (non meglio precisata) cultura della vita. Tale contrapposizione, oltre che in Inghilterra, trova espressione pure in Italia, a leggere le prime dichiarazioni (comunicate via social) di uomini e donne anche con elevata responsabilità politico-istituzionale.

In realtà, non siamo dinanzi a nessuna contrapposizione, quanto piuttosto di fronte ad un fatto drammatico attorno al quale (come era prevedibile pensando a casi analoghi, quando non può esserci ‘consenso informato’, che è nella esclusiva disponibilità di chi è maggiorenne, capace e consapevole) si sono sviluppate diverse concezioni su quale fosse il ‘migliore interesse’ del piccolo Alfie.

Una riflessione sul punto suggerisce di richiamare, sia pure in modo essenziale, il caso clinico per come è stato riportato dalla stampa e nelle decisioni giudiziali intervenute in merito.

A ridosso della nascita (maggio del 2016), al bambino era stata diagnosticata una serie di patologie neurologiche, ben presto estese da problematiche alla vista ad un complessivo ritardo nello sviluppo cognitivo, fino a che, dopo una grave polmonite, subentrava una condizione di coma irreversibile. La diagnosi a quel punto si precisava in quella di neuropatologia degenerativa.

La situazione, altamente critica, non poteva trovare soluzioni con gli strumenti e le terapie ad oggi resi disponibili dalla pratica medica e nemmeno da studi e ricerche scientifiche in tale campo, tanto che i medici che avevano in cura il bambino hanno ritenuto, in scienza e coscienza, che continuare a mantenere in vita il piccolo paziente somministrandogli una ventilazione artificiale non rientrasse nel suo best interest.

Da parte dell’équipe sanitaria, quindi, veniva rivolta al giudice competente la richiesta di interrompere il trattamento – ritenuto non più appropriato, del tutto privo di efficacia, inutile, e quindi espressione di una ostinazione irragionevole – lasciando che la malattia facesse il suo decorso naturale.

In un simile quadro non si tratta di schierarsi tra una posizione pro life o una pro death, ma di evidenziare che ci si trovava dinanzi non ad una diversità di culture (per la vita o per la morte, appunto), quanto piuttosto di fronte a diverse interpretazioni di un medesimo punto, ovverosia di quale fosse il «miglior interesse» del piccolo Alfie.

Data la situazione del caso concreto, la domanda dirimente restava quella relativa a chi spettasse l’ultima parola in merito alle cure (da assicurare o da sospendere). Ai genitori, ai medici o ai giudici? Per come vedremo, la scelta è stata imposta sia dalla situazione di contrasto intervenuta sia dalla patologia del piccolo Alfie.

Se i medici dell’Alder Hey Children’s stimavano che le sofferenze a cui il bambino era sottoposto non risultavano ulteriormente accettabili in una situazione clinica irrimediabilmente compromessa, diversamente, i genitori assumevano che il miglior interesse per il proprio figlio non dovesse essere quello di “lasciarlo morire”. In un sistema ben regolato, come è l’ordinamento giuridico inglese, dinanzi ad una concreta contrapposizione su quale fosse il ‘migliore interesse’ del piccolo paziente, il ricorso al giudice era di fatto obbligato. Anche ricordando la risoluzione sul caso ‘Charlie Gard, i giudici inglesi hanno stabilito che la condizione clinica del piccolo Alfie fosse irreversibile, costringendolo a sofferenze inutili e quindi inaccettabili, in ragione anche della constatazione che il cervello era totalmente compromesso (per la totale distruzione della materia bianca e la massiva compromissione di quella grigia), tanto che nessuna terapia – anche di tipo sperimentale – avrebbe potuto invertire, o comunque arrestare, l’andamento certo della patologia.

Il piccolo Alfie veniva mantenuto in vita con un respiratore artificiale, non essendo in grado, secondo i medici che lo avevano in cura, di respirare in modo autonomo. La decisione, pertanto, è stata quella di interrompere il trattamento dando inizio alle cure palliative, le sole ritenute in grado di offrire un accompagnamento dignitoso nell’ultima fase della sua breve esistenza.

Oltre a determinarsi in tal modo, il giudice inglese assumeva che il trasferimento in un ospedale italiano avrebbe costretto il piccolo Alfie ad un mero prolungamento delle sofferenze, che anzi sarebbero potute aumentare (per l’alta predisposizione a contrarre infezioni), tanto da portare lo stesso giudice ad affermare che «nessuno vorrebbe che Alfie morisse durante il viaggio». Nella certezza fattuale che non esisteva alcuna cura (neanche in Italia) in grado di arrestare il decorso infausto della malattia, il viaggio per il ricovero in un ospedale italiano non veniva autorizzato.

In tal modo, il giudice dava seguito alla valutazione medica fondata su parametri (scientifici) diversi da quelli (amorevoli) dei familiari, assumendo nei termini che seguono la situazione clinica del piccolo paziente. Non potendosi presagire alcun possibile miglioramento né vantaggi di sorta con le cure allo stato disponibili, la consapevolezza (scientifica) che il dolore sarebbe potuto aumentare o comunque non regredire portava i medici a valutare che l’interesse del piccolo Alfie fosse quello di interrompere le cure (e quindi di morire) anziché continuare a soffrire (prolungando l’attività vitale in modo artificiale).

Dinanzi alla diversità delle ‘culture’ richiamate in premessa, è doveroso precisare che la morte del piccolo Alfie non è stata voluta da nessuno, risultando causata da una malattia crudele che lo ha spento a soli 23 mesi e che, per quanto possiamo saperne, neanche in ospedali italiani avrebbe potuto conoscere altro esito; la gravità del danno era altamente critica ed invalidante, tanto da essere irrecuperabile, anche ‘per la medicina italiana’.

D’altra parte si dovrebbe ricordare che dinanzi ad una malattia non curabile è lo stesso Codice di deontologia medica italiano a stabilire che il medico «non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per salute e/o un miglioramento della qualità della vita».

A volte il sapere medico e il potere tecnologico non possono che limitarsi a mantenere in vita e nulla di più. E questo è stato il caso del piccolo Alfie. Si può però interrompere l’invadenza della tecnica sul corpo martoriato e limitarsi a ricondurre la morte nell’alveo della sua naturalità. Ciò evidentemente non significa non provare un sentimento di empatia per la morte di un bambino inerme, ma solo essere coscienti della finitezza dell’uomo e delle sue possibilità; talora, non si può fare altro che arrendersi all’esito fatale di una malattia che, purtroppo, finisce per avere l’ultima parola.

* Assegnista di ricerca di diritto costituzionale all’Università di Catanzaro

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