L’autodichia degli organi costituzionali è a sua volta costituzionale

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di Giampiero Buonomo *

L’autodichia degli organi costituzionali è costituzionalmente legittima: lo dichiara la Corte costituzionale con la sentenza 26 settembre-13 dicembre 2017 n. 262. Quella che nella sentenza n. 120/2014 apparve alla Corte una questione controversa, anche perché isolatissima nel panorama comparatistico, ora viene risolta respingendo la contestazione di spettanza avanzata dalla Corte di cassazione tre anni fa.

Ad oltre trent’anni dalla precedente pronuncia n. 154/1985, quindi, viene confermata la lettura offerta dall’allora relatore Ferrari, secondo cui l’indipendenza “guarentigiata” di Camera, Senato, Corte costituzionale e Presidenza della Repubblica ne giustifica la sottrazione alla Giurisdizione comune, ordinaria o amministrativa che sia: per soprammercato, il redattore Zanon vi aggiunge, oggi, che questa peculiarità tutta nostrana è “il razionale completamento dell’autonomia organizzativa degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati serventi, la cui disciplina e gestione viene in tal modo sottratta a qualunque ingerenza esterna”. Quindi anche la cosiddetta autocrinia è fatta salva, almeno quando l’auto-normazione attiene alla possibilità di “regolare da sé i rapporti con il proprio personale”. Come si apprende anche dal comunicato-stampa della Corte, invece, i giudici di palazzo della Consulta hanno inteso escludere da questa generale mansalva la disciplina dei rapporti con i terzi e la relativa giurisdizione, che “in via di principio” rifluirà nelle competenze della Giurisdizione ordinariamente competente (Considerato in diritto, § 7.2).

Una sconfitta su tutta la linea di chi invocava la “grande regola dello Stato di diritto”? Forse. Ma che lo statuto di garanzia delle Camere (e degli altri organi costituzionali) venga ora ricondotto al fine di tutelare la libertà dell’organo nel disimpegnare le sue funzioni, è già un passo indietro, rispetto al formalistico giuspositivismo della sentenza n. 154/1985. Si ritorna, cioè, alla ricerca della ratio dell’istituto e questa gravita intorno all’universo immunitario: come il relatore Mezzanotte sostenne, nel sottrarre i deputati pianisti al giudice penale, occorre “un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all’esercizio della giurisdizione […] e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà” (sentenza n. 379/1996).

Lo statuto di autonomia delle Camere non è frutto del mero articolo 64 Cost. (come si affacciava nel 1985), ma deriva dall’uso della riserva di regolamento in funzione di un interesse equiordinato, rispetto alla Giurisdizione: tale interesse potrebbe essere proprio la libertà di agire senza ingerenze, che è sottesa al riconoscimento delle immunità (ad esempio di sede) dell’organo costituzionale. La conferma è, a contrario, nella statuizione sui terzi di cui al § 7.2: già nel 1996 Carlo Mezzanotte sosteneva che, laddove vengano in discussione beni che sfuggono all’esaustività della capacità qualificatoria del regolamento parlamentare, “deve prevalere la ‘grande regola’ dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti […]. Il confine tra i due distinti valori (autonomia della Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro) è posto sotto la tutela di questa Corte” (sentenza n. 379/1996).

In questa prospettazione, la responsabilità degli organi costituzionali è grande, forse eccessiva, perché non attiene solo all’imparzialità ed indipendenza dei giudici interni, ma anche alla capacità e volontà di dare corso alle loro statuizioni, cosa che nel caso di specie non era avvenuta. Ma, stanti i persistenti connotati immunitari degli organi, quale istruttoria del giudice civile o amministrativo avrebbe goduto della pretesa di esaustività che l’accertamento giurisdizionale deve avere, per produrre una decisione autorevole? E quale ircocervo sarebbe stato l’ipotesi subordinata, affacciata dalla Cassazione, che si candidava a fare da giudice di terzo grado sulle statuizioni (emesse per lo più in base a normative interne) dei giudici domestici? La Giurisdizione si candidava a cantare e portare la croce.

La Corte costituzionale le ha risparmiato questo costoso esercizio di equilibrio: potrebbe essere stato il frutto di una generosità pelosa, visto che la Corte – come ha ricordato il professor Amato in un convegno nel giugno 2017 a “Italiadecide” – è essa stessa titolare di un’autodichia verso i propri dipendenti. Ma verum est factum: l’autodichia è costituzionale e bisogna farsene una ragione. Poi, che sia anche costituzionalmente necessitata, è tutto da vedere: la semantica della Corte lascia vari appigli (“è consentito agli organi costituzionali…”: § 7.2; “le Camere e il Presidente della Repubblica hanno provveduto a disciplinare, attraverso le fonti di autonomia, il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, poiché hanno ritenuto tale scelta funzionale alla più completa garanzia della propria autonomia”: § 7.3) alla richiesta, avanzata più volte dal Partito radicale, affinché gli Uffici di Presidenza di Camera e Senato dismettano volontariamente l’antico privilegio dell’auto-normazione, magari riservandoselo in casi eccezionali mercé deroghe esplicite, espressamente motivate.

Il rischio di una “seconda vita” dell’autodichia, dopo questa sentenza, è elevato, anche perché minacciano di brandirla coloro che – nella contesa politica contro le massime Istituzioni della Repubblica – intendono farne lo strumento di un privilegium in senso etimologico (ossia trattamento di sfavore: cfr. le XII tavole). La Corte ha riconosciuto ampi poteri agli organi costituzionali, ma il monito ciceroniano resta sempre l’insegnamento più avveduto: cedant arma togae.

* Consigliere parlamentare. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.

 

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