di Chiara Bergonzini
Qualcuno l’aveva capito molto tempo fa: sul lungo periodo, la rincorsa alla crescita del PIL non può essere l’unico obiettivo economico di un sistema democratico, perché ai fini del suo calcolo rileva – in sintesi – solo la produzione di mercato, senza distinguere se ciò che ha valore per il mercato sia nella realtà utile o dannoso alla vita degli esseri umani, all’ambiente in cui si muovono, alle relative interazioni. Così diceva Robert Kennedy, nel 1968, nel famoso discorso alla Kansas University; ma lo stesso sosteneva Enrico Berlinguer, che oltre quindici anni dopo (il 7 giugno 1984) definiva la «lotta per il benessere e la felicità dell’uomo» come «una prova che può riempire degnamente una vita». Per decenni oggetto di approfondimento quasi solo da parte delle organizzazioni internazionali (l’OCSE e, più di recente, le Nazioni Unite), il progetto “Beyond GDP” è balzato agli onori delle cronache nel 2008, grazie alla Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, che nel Rapporto finale del 2009 l’ha tradotto in 12 raccomandazioni (qui, p. 12 e ss.) dirette principalmente ai policymakers, riprese anche da Commissione e Parlamento europei.
Sia chiaro: nonostante qualche slogan forse eccessivamente fiducioso, non c’è nulla di naïve in queste iniziative, che sono anzi il frutto di raffinati studi economici e articolati lavori statistici, supportati dalle scienze umane (principalmente la sociologia) ed ecologico-ambientali. Ed è stata la crisi economica, che ha inciso la carne viva di (quasi) tutta la società, a diffondere anche nell’opinione pubblica la consapevolezza che la massimizzazione del PIL, inseguita per decenni, non è sufficiente a salvaguardare la qualità della vita. Certo, il PIL è comunque un indicatore ormai consolidato e non può essere integralmente sostituito, né con un altro singolo indicatore, né con un gruppo di indicatori di tipo diverso. Bisogna però affiancarlo ad altri parametri di valutazione, che nel complesso restituiscano un’immagine più esauriente della multiforme realtà attuale.
Ecco cosa sono gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile: il contributo dell’Italia (cui va riconosciuto il ruolo di promotore, grazie all’impegno di Enrico Giovannini) al tentativo di andare “oltre il PIL”. A partire dal 2010, l’ISTAT e il CNEL hanno avviato un imponente progetto che, partendo dalla definizione di benessere, ha condotto all’individuazione di 130 indicatori, raggruppati in 12 domini: salute, istruzione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi. A partire dal 2013, l’ISTAT pubblica ogni anno un Rapporto, progressivamente affinato e migliorato, che restituisce un’immagine molto nitida della situazione dei singoli settori (domìni, nel linguaggio tecnico), della loro evoluzione e, dal 2017, anche delle performance Regione per Regione.
Dal 2016, con la riforma della legge di contabilità generale, il BES è entrato ufficialmente anche nella programmazione economica nazionale: da quest’anno, un paniere ristretto di 12 indicatori, selezionati da un Comitato ad hoc e formalizzati in un decreto del MEF, dovrà essere oggetto di un apposito allegato al DEF. Inoltre, a febbraio di ogni anno il Governo dovrà relazionare alle Camere sull’andamento dei medesimi indicatori, con particolare riferimento agli effetti determinati dalle leggi di bilancio.
La sfida, innanzitutto culturale, è immensa, e lo scetticismo più che giustificato dai precedenti: siamo famosi per le dichiarazioni di intenti che si risolvono in un nulla di fatto e per i proclami alla stampa dissolti in meri adempimenti burocratici. Non resta quindi che attendere, per vedere se qualcuno dei prossimi decisori politici riuscirà almeno a cogliere l’enorme occasione, anche economica, rappresentata da un uso strategico del BES.