di Andrea Guazzarotti*
La Corte di giustizia dell’UE ha recentemente statuito che Uber non presta semplici servizi informatici («servizi della società dell’informazione»), bensì un servizio integrato, «in cui l’elemento principale è un servizio di trasporto». L’aver optato per tale definizione del servizio prestato da Uber ha comportato conseguenze rilevanti: se fosse passata la linea del mero servizio informatico, il diritto dell’UE avrebbe messo fuori gioco le normative nazionali restrittive, in virtù del principio della libera prestazione dei servizi (art. 56 TFUE), nella versione “hard” del principio della legislazione d’origine, di cui alla famigerata Direttiva Bolkestein. Se invece, come deciso dalla Corte, si ricade nei servizi di trasporto, scatta la normativa speciale del trattato (art. 58.1 TFUE), la quale rinvia alla necessità di una disciplina comune europea dei trasporti. In mancanza di quest’ultima, ogni stato membro resta padrone di disciplinare le condizioni di prestazione dei servizi di trasporto: e così accade per la disciplina (restrittiva) di Uber in Spagna (ordinamento da cui è sorta la questione portata da un giudice spagnolo alla Corte di giustizia UE).
Dalla sentenza della Corte di giustizia non trapela alcuna esplicita avversione per Uber, sicuramente non le critiche più estreme di chi vede in Uber (o in Airbnb) l’espressione più pura del neoliberismo e della sua capacità di piegare a favore del capitale le nuove tecnologie e le ideologie su queste attecchite (la Sharing Economy): nessun affrancamento dei consumatori dagli odiosi intermediari monopolisti della “vecchia economia”, bensì la loro sostituzione con nuovi intermediari (aspiranti a posizioni monopolistiche ancora più salde) «che estraggono rendita da proprietà altrui (automobili, case o altro). I veri beneficiari non sono i consumatori, né i piccoli proprietari chiamati a “condividere” le proprie risorse, ma questi nuovi colossi della Internet Economy che instaurano con i propri “fornitori di servizi” lo stesso rapporto che i latifondisti avevano con i mezzadri» (Carlo Formenti).
Degno di nota, però, il giudizio della Corte di giustizia sulle modalità operative dei servizi “complessi” offerti da Uber: «il servizio d’intermediazione della Uber si basa sulla selezione di conducenti non professionisti che utilizzano il proprio veicolo ai quali tale società fornisce un’applicazione senza la quale, da un lato, tali conducenti non sarebbero indotti a fornire servizi di trasporto e, dall’altro, le persone che intendono effettuare uno spostamento nell’area urbana non ricorrerebbero ai servizi di tali conducenti». Non siamo, dunque, in presenza del mero spontaneismo della società della rete, che si ingegna a solidarizzare per ottenere a prezzi più bassi o nulli quei servizi oggi forniti da pochi, avidi monopolisti.
Siamo in presenza di un nuovo monopolista che organizza il lavoro altrui, evitando qualsiasi rischio d’impresa e responsabilità (l’assicurazione dell’auto, l’eventuale infortunio “sul lavoro” dell’autista, ecc., è tutto a carico di quest’ultimo), nonché eludere la tassazione sugli introiti così ottenuti. Per la Corte, «la Uber esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione di siffatti conducenti», specialmente la fissazione del prezzo massimo della corsa, incamerato dalla stessa Uber prima di versarne una parte al conducente non professionista, oltre al controllo su qualità del veicolo e del conducente, con tanto di potere di escludere quest’ultimo dalla piattaforma informatica stessa (l’equivalente di un licenziamento ad nutum).
L’analisi del fenomeno Uber da parte della Corte appare tanto distaccata quanto impietosa: da essa trapela abbastanza chiaramente come i conducenti di Uber non sono semplici imprenditori che sfruttano se stessi, bensì degli sfruttati da un imprenditore che ha il vantaggio di portare l’aureola della modernità liberatrice della rete e delle sue magnifiche sorti e progressive.
Un vero peccato per i sostenitori del verbo dell’auto-imprenditorialità che la Corte di giustizia non abbia colto i frutti che la modernità della rete e della Sharing Economy possono portare ai consumatori, elevati a imprenditori di se stessi. E si badi che tra gli apostoli dell’auto-imprenditorialità v’è proprio la Commissione europea, che da anni sostiene iniziative tese a risolvere la crisi dell’occupazione e del lavoro salariato attraverso la riconversione dei lavoratori dipendenti in imprenditori di se stessi (spesso, falsi lavoratori autonomi). Non a caso, la Commissione, assieme a una nutrita schiera di governi, era per l’irricevibilità della questione decisa dalla Corte.
Dopo la privatizzazione del keynesismo che è valsa a sostituire il sostegno pubblico della domanda con i prestiti al consumo offerti dalle banche (C. Crouch), siamo dinanzi a un altro tassello del neoliberismo che permette alle nuove forme capitalistiche di «comprare tempo» e ritardare l’implosione del capitalismo (W. Streeck): la spinta deflattiva del modello neoliberista trova una (temporanea) compensazione nell’autosfruttamento della classe media impoverita. Quest’ultima arrotonda le magre entrate rinunciando al proprio tempo libero, nella mesta consolazione di contribuire alla missione collettiva e solidale di rendere meno costosi i servizi di cui il consumatore medio ha bisogno. Il tutto facendo incredibilmente arricchire un ristrettissimo numero di persone, il cui reddito è così posto al riparo della redistribuzione operabile con la tassazione. Un sistema tanto geniale quanto perverso e distruttivo del legame politico-sociale precedente. Potrà quest’ultimo essere sostituito dal nuovo legame della rete e della Sharing Economy?
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
Nel ns Paese Uber organizza il lavoro degli NCC, creando per essi un’altra fonte di guadagno che si aggiunge ai loro normali canali di generazione di affari. Non c’è nessun sfruttamento, nessun monopolio, nessun mezzadro. Fantasie arcaiche di chi legge il presente con i modelli mentali del novecento, morto e sepolto.
Non mi è chiaro il concetto di autoimprenditorialità che complica le già ardue interpretazioni ideologiche delle patite IVA. Non si potrebbe semplificare introducendo un tipo di patente per chiunque volesse offrire un servizio di trasporto a pagamento? Inclusa la partita IVA naturalmente, tassisti, NCC, ecc. Nel caso Uber si tratterebbe quindi di acquisto di servizi informatici da parte degli “autoimprenditori” che forse rimangono imprenditori individuali come tutti gli esseri umani incluse le patite IVA. L’eccesso di categore, di leggi e di norme per lo più servono a difendere monopoli e privilegi, cosa che la Costituzione si presume osteggi.