di Fulvio Cortese
L’estate scorsa, in un’importante sentenza (n. 169/2017), la Corte costituzionale si è pronunciata su alcune e articolate questioni concernenti la legittimità costituzionale della disciplina sulle condizioni di erogabilità e di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni sanitarie di assistenza specialistica ambulatoriale.
In sostanza, poiché i medici, anche per tutelare se stessi di fronte ad eventuali richieste risarcitorie dei malati, prescrivono troppi esami, il legislatore ha individuato un meccanismo di elaborazione di parametri tendenzialmente oggettivi, per limitare i possibili abusi e il conseguente e progressivo aumento della spesa sanitaria.
A tale riguardo, in particolare, la Corte ha precisato (tra i vari profili che venivano effettivamente in gioco) che le indicazioni contenute nel decreto che il Ministero della salute deve a tal fine adottare (il cd. decreto appropriatezza) “non vietano certamente al medico le prescrizioni ritenute necessarie nel caso concreto e non pregiudicano quindi la sua prerogativa di operare secondo ‘scienza e coscienza”. Si tratta soltanto di stimolare il medico a “rendere trasparente, ragionevole ed informata la consentita facoltà di discostarsi” da quelle indicazioni; facoltà che sarà censurabile, di volta in volta, non tanto per l’automatica prevalenza di ragioni di natura politico-finanziaria, quanto in presenza di gravi scostamenti dalle evidenze scientifiche in materia.
Tradotto in modo estremamente semplice, ciò che il giudice costituzionale afferma è che va benissimo porre degli standard sulle prescrizioni che i medici indichino ai loro pazienti come necessarie (la razionalizzazione della spesa complessiva del servizio sanitario nazionale è un obiettivo pacificamente ragionevole); ciò che non si può, tuttavia, postulare è che quegli standard impediscano ai medici di calibrare il percorso di cura in modo personalizzato, in armonia con ciò che consentono la scienza medica e i suoi continui sviluppi. Soluzioni precostituite e meccaniche, dunque, non esistono: perché, quando si tratta di tutelare la salute, da un lato, la sede politica non può porre veti pregiudiziali; dall’altro, non esistono diritti che siano configurabili in senso assoluto, bensì “soluzioni” che il medico, nel suo rapporto col paziente, è tenuto a individuare caso per caso, osservando le regole deontologiche che conformano la sua peculiare professione.
Di fronte a queste acquisizioni ci si può chiedere chi, o che cosa, possa mai garantire che questo equilibrio venga rispettato. La risposta è quasi banale: lo può fare – anzi, lo deve fare – l’amministrazione sanitaria; quel corpo istituzionale, articolato e policentrico, che deve attrezzarsi per fornire una prospettiva dichiaratamente individualizzante, e che in tal modo può evitare che il “governo” di singole prestazioni assorba o esaurisca la “garanzia” della cura.
Che questo non sia un esito di poco momento è dimostrato da un bel lavoro monografico (Nicoletta Vettori, Diritti della persona e amministrazione pubblica. La tutela della salute al tempo delle biotecnologie, Milano, Giuffrè, 2017), che, specie nella sua prima parte (Capp. I e II), si propone proprio di spiegare come, nell’età della rivoluzione biomedica, l’intermediazione dell’amministrazione sia quanto mai necessaria, perché solo essa consente di garantire l’equità del sistema e l’effettività dei diritti. Ciò a condizione, naturalmente, che il linguaggio della legalità amministrativa venga attraversato da un diffuso e profondo processo di “costituzionalizzazione”. La garanzia della persona, in altri termini, deve diventare il fondamento delle regole e dei principi che orientano l’amministrazione sanitaria, contribuendo, così, al suo rilancio e alla sua modernizzazione.
Le parti successive del volume – la seconda (Capp. III e IV) e la terza (Capp. V, VI e VII) – sviluppano questo punto di vista. L’amministrazione sanitaria, infatti, si va già trasformando. E l’Autrice si sofferma sulle tante e diverse ipotesi in cui oggi il ruolo dell’amministrazione risulta determinante ai fini della soddisfazione dei bisogni di salute che la scienza e la tecnologia possono soddisfare. L’esercizio dei “diritti sul corpo”, d’altra parte, è sempre più al centro di un sistematico approccio di procedimentalizzazione, che a sua volta esige una regolazione e un’organizzazione amministrative con esso coerenti. In proposito, le istanze del settore si sono manifestate da tempo, con la proliferazione, anche assai discussa, di strumenti ad hoc (linee guida, protocolli, etc.) e con la moltiplicazione, parimenti oggetto di diffuse incomprensioni, di organismi tecnici altrettanto specifici (come i comitati etici).
Ciò che di questo libro, però, merita una menzione specifica è l’idea – affacciata, e parzialmente analizzata, nelle conclusioni – che le prerogative della scienza medica vadano esse stesse qualificate come “poteri amministrativi”, non potendo più concepirsi come espressioni di un ordine autonomo, oggettivo e capace di autolegittimarsi in forza di principi che ne assicurerebbero intrinsecamente la democraticità e l’eticità. Sul punto la tradizione del diritto dell’amministrazione – e dei dibattiti che storicamente si sono svolti circa l’esistenza, o meno, di nuclei riservati di valutazione amministrativa – può fornire un valido quadro di riferimento per rendere più controllabili questi “poteri” e, soprattutto, per orientarne concretamente la direzione verso la tutela dei diritti della persona.
Il diritto alla salute, dunque, richiede più amministrazione. Ma, per evitare che questo traguardo si risolva in un eccesso burocratico, gli operatori (e gli amministrativisti…) dovranno raccogliere la sfida e comprendere che, al di là di una maggiore presenza dell’amministrazione, ciò che occorre è anche un diritto amministrativo adeguato, più aperto e interdisciplinare, che la sappia valorizzare ragionevolmente.
Spesso ci imbattiamo nel dilemma: decide il singolo o la collettività? In via di principio nelle democrazie liberali, come sembra essere quella definita nella nostra Costituzione, si applicano pochi criteri:
1) Il singolo decide in piena responsabilità e autonomia per ogni scelta che lo riguarda
2) La collettività prevale, nei modi e nei limiti previsti dalla Costituzione della società, solo quando il singolo agisce contro la società, ovvero in concreto quando produce danno ad altri da sé.
Questi principi implicano l’annullamento dell’asimmetria informativa fra individui che nella realtà non può essere eliminata, ma solo mitigata informando al meglio i destinatari delle proprie azioni e delle loro conseguenze.
Se questi principi fossero confermati, la complessità di una società in veloce evoluzione si semplificherebbe molto.