di Giovanni De Plato
Gli inserti settimanali dedicati all’economia dei maggiori quotidiani italiani insistono nell’invitare gli imprenditori ad investire nel settore salute e benessere perché è un vantaggioso business, anche se richiede particolari doti di “diligence”. Vari esperti, manager e presidenti di associazioni e fondazioni che si occupano di healtcare concordano nell’affermare che imprese, fondi e assicurazioni sono già in grado di fornire alla parte pubblica servizi sanitari e sociali a costi più convenienti di quelli prodotti dalle Aziende sanitarie. Come dire ai governi locali e nazionale vi conviene affidarvi alla produzione del mercato e abbandonare la produzione propria e diretta.
Purtroppo bisogna riconoscere che questo messaggio sta trovando disponibilità finora impensabili, tanto da far parlare di un nuovo patto tra istituzioni e soggetti sociali, che una volta erano strenui difensori della cosa pubblica e della riforma sanitaria. Da questi imprenditori arriva un esplicito e duro accerchiamento all’assistenza sanitaria e sociale pubblica. Il sistema universalistico italiano, nonostante il suo primato mondiale per qualità e sostenibilità, viene messo in discussione a livello globale e locale dalle politiche neo-liberiste e dall’espansionismo del mercato capitalistico e del profitto privato. L’evidenza scientifica (minore mortalità infantile e più anni di vita della popolazione), economica (costi inferiori rispetto alla medicina assicurativa e privata) e sociali (maggiore e più diffuso benessere) della esperienza italiana, vengono ritenute non generalizzabili negli altri Paesi e a lungo insostenibili nella stessa Italia, dove nel 2050 ci sarà un pensionato per due lavoratori.
A sostenere questa falsa conclusione e a proporre una mercantile alternativa ci pensa il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Questi organismi internazionali hanno indicato ai Paesi sviluppati e in via di sviluppo una ricetta sostitutiva del modello universalistico. Si richiamano alle sfide di governance del XXI secolo, poste dalla necessità di fornire un’assistenza a una popolazione sempre più longeva e con meno occupati (crescita della domanda e ridotte risorse) e dall’indispensabilità dell’innovazione tecnologica (moltiplicazione dei costi), non per come affrontarle ma per tentare d’imporre la loro supremazia liberista. Occorre, secondo la Banca mondiale, alzare l’età pensionabile, diminuire l’entità delle pensioni, tagliare i servizi e le prestazioni, introdurre il libero mercato e favorire l’iniziativa del privato.
Nel nostro Paese non solo il governo Berlusconi cercò di allinearsi a queste indicazioni, ma anche i governi che si sono succeduti dal 2011 a oggi, da Monti a Gentiloni hanno assecondato questa deriva. Il governo-tecnico di Monti è riuscito in particolare a innalzare l’età pensionabile, introdurre i super ticket e a ridurre il Fondo sanitario. Il governo Letta ha dato seguito a questa politica di riduzione della spesa pubblica e quello di Renzi ha spinto in avanti il processo di introduzione del privato nell’assistenza sanitaria e sociale, fino a consentirne un protagonismo alternativo. Prima con l’introduzione del Jobs act e poi con la legge di stabilità del 2016. Con il primo provvedimento Renzi ha permesso che avvenisse una ridistribuzione delle risorse pubbliche a favore dell’impresa (meno spesa pubblica e riduzione del costo del lavoro). Poi con il secondo ha favorito un nuovo modello di contrattazione che prevede il Welfare aziendale.
La filosofia di questo istituto contrattuale è che a beneficiare dei vantaggi dovrebbe essere sia il datore del lavoro sia il dipendente. Il primo perché la fornitura di prestazioni assistenziali (Welfare aziendale) viene esentata da contributi e imposizioni fiscali. Il lavoratore perché paga meno tasse percependo un salario ridotto, dovuto al versamento del premio di produzione al fondo dell’azienda. In realtà questo nuovo strumento delle relazioni industriali si presta facilmente a essere piegato a una nuova strategia padronale, quella di fornire servizi sanitari e sociali in alternativa a quelli del Welfare pubblico. Infine, l’attuale governo Gentiloni ha emanato di recente un disegno di legge sulle liberalizzazioni che concede agli imprenditori l’opportunità di creare affiliazioni in importanti settori, come per esempio in quello delle farmacie. La legge prevede che società imprenditoriali possano creare reti di farmacie, che saranno trasformate in Box di salute, bellezza e benessere dove ogni persona può liberamente comprare i vari prodotti o tipi di servizio.
Dunque, imprenditori, sindacati, associazioni, cooperative profit, fondi e assicurazioni stanno di fatto creando un nuovo patto con le forze politiche e con i governi anche del centrosinistra per dirottare il Fondo nazionale e regionale della sanità e del sociale verso il mercato, incrementando la domanda degli italiani verso le strutture e le cure private. Sono già 10 milioni le persone che utilizzano i servizi a pagamento diretto, spendendo circa 35 miliardi a fronte di una spesa pubblica di oltre 112 miliardi (dati 2015). I privati, anche quelli appartenenti all’area progressista e di sinistra, vogliono mettere le mani sul Fondo del Servizio sanitario nazionale, decretandone così la fine.
Cosa fare? La partita non è persa, sempre che le forze democratiche e di sinistra sappiano affrontare le sfide del XXI secolo, qualificando ulteriormente il nostro sistema universalistico con l’innovazione del digitale e la gestione mista delle strutture (pubblico-privato profit e non profit). Si può vincere sempre che chi governa sappia valorizzare il ruolo del pubblico come insostituibile istituzione di programmazione, di indirizzo e di controllo.