di Giovanni Di Cosimo
Di recente alcuni sindaci hanno preso a cuore la questione delle persone che chiedono la carità per le strade delle città italiane e l’hanno affrontata con ordinanze contingibili e urgenti, finalizzate a contenere il fenomeno.
Anche in passato diversi sindaci si sono distinti in questa nobile battaglia, tanto che nel 2011 una questione è arrivata addirittura alla Corte costituzionale. In quella sentenza i giudici chiariscono che queste ordinanze ”incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati. La Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23)”. L’indicazione che viene dalla Corte è chiara: in questo campo occorre delimitare con cura la discrezionalità amministrativa perché si toccano delicate corde costituzionali.
Ancora prima, la Corte aveva giudicato incostituzionale la norma del codice penale che puniva come reato la mendicità non invasiva, lasciando però il reato per le ipotesi di mendicità invasiva (ossia, come spiegava l’art. 670 del codice penale, quando “il fatto è compiuto in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”). Nel 1999 il legislatore ha poi depenalizzato anche questo comportamento. È ancora reato, invece, il comportamento di chi sfrutta i minori (art. 600-octies del codice penale), e il comportamento di chi “riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola (…) all’accattonaggio” (art. 600).
Da ultimo, il decreto Minniti del febbraio scorso ha rilanciato la questione sul piano amministrativo. Il decreto legge ha aggiunto una disposizione all’art. 54 del testo unico degli enti locali secondo cui, fra le altre cose, le ordinanze per la sicurezza urbane possono servire a “prevenire e contrastare (…) l’accattonaggio con impiego di minori e disabili”.
Tre casi recenti, che forse sono indicativi di una tendenza, mostrano come i sindaci facciano ampio uso di quella discrezionalità che invece, come giustamente dice la Corte costituzionale, dovrebbe essere attentamente circoscritta.
Cominciamo dall’ordinanza del sindaco di Sansepolcro del 3 agosto. Pur essendo successiva al decreto Minniti, non si basa sull’art. 54 del testo unico, ma su un’altra disposizione, l’art. 50 che non fa specifico cenno all’accattonaggio (parla di “interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana”). Il sospetto è che lo faccia per poter vietare tutte le forme di accattonaggio, anziché limitarsi alle sole forme dell’impiego di minori e disabili indicate dall’art. 54. Infatti, il sindaco vieta anche l’accattonaggio non molesto in alcune aree cittadine con la motivazione che “compromette il decoro e la vivibilità urbana degli spazi pubblici”.
Peraltro, proprio questo è il tratto comune delle tre ordinanze. Tutte contengono un divieto generale, che non distingue fra forme moleste o non moleste, e neanche si limita all’ipotesi dell’impiego di minori e disabili di cui parla ora l’art. 54 del testo unico. Così dispongono anche l’ordinanza del 5 settembre del sindaco di Todi e l’ordinanza del 6 settembre del sindaco di Borgosesia che pure richiamano l’art. 54 del testo unico.
L’altro tratto comune è l’imposizione di una multa a carico dei trasgressori. Le tre ordinanze stabiliscono una sanzione amministrativa pecuniaria che scatta in caso di violazione (a Borgosesia può arrivare fino a 1500 euro). A questo riguardo, l’ordinanza di Todi ammette candidamente che è inutile attivare procedimenti di riscossione coattiva, per l’evidente ragione che i mendicanti non hanno risorse economiche. Ciò fa capire che simili provvedimenti vengono adottati non perché abbiano realmente efficacia deterrente, ma più verosimilmente allo scopo di rassicurare i cittadini (quelli, si intende, che sono allarmati).
L’ordinanza di Sansepolcro ha un’altra peculiarità. Nel punto in cui stabilisce la propria durata, fa cenno alla modifica dei regolamenti comunali, il che sembra tradire la volontà di rendere stabili simili previsioni, trasfondendole appunto nei regolamenti, mentre la giurisprudenza costituzionale ha sempre detto che le ordinanze devono avere durata limitata.
Infine, la previsione più sorprendente si trova nell’ordinanza del sindaco di Borgosesia. Se il mendicante è ospite di una struttura per immigrati, il verbale con la sanzione pecuniaria viene recapitato anche al responsabile della struttura. Un comunicato stampa del sindaco chiarisce il senso: “Quotidianamente viene appurato che le persone che mendicano in prossimità di supermercati, sono ospiti presso strutture di accoglienza di comuni limitrofi appositamente impegnate nella gestione degli immigrati”. Insomma, siccome sono gli immigrati che chiedono la carità (con le parole del sindaco: “chi mendica sono i presunti profughi che manteniamo quotidianamente pagando loro vitto, alloggio, spese telefoniche, sigarette e videopoker vari”), bisogna sanzionare anche chi li ospita in altri comuni. Inutile dire, che i responsabili delle strutture di accoglienza non c’entrano niente con l’accattonaggio e che in questo punto l’ordinanza si spinge ben oltre i confini della discrezionalità amministrativa.