di Andrea Guazzarotti*
Nel suo ultimo editoriale domenicale sul Sole 24 Ore, Sergio Fabbrini ha giustamente messo in guardia dal riporre troppe speranze nella capacità di capi degli esecutivi nazionali come Macron di riformare l’UE in senso autenticamente federalista. Se è certamente augurabile, per chi ha a cuore l’integrazione europea, che i governi nazionali siano guidati da leader europeisti, non è possibile attendersi da questi ultimi una revisione dell’attuale assetto dell’UE a trazione intergovernativa. Trazione che, privilegiando il ruolo del Consiglio europeo (ove siedono i capi degli esecutivi nazionali) su quello della Commissione, finisce inevitabilmente per privilegiare gli interessi degli stati membri più forti, spacciandoli per interessi generali dell’UE.
Fin qui, tutto pienamente condivisibile. L’analisi critica di Fabbrini convince assai meno quando trae da tale quadro un ammonimento per l’Italia, patrocinando per il nostro Paese riforme in grado di esprimere governi forti. Ossia, par di capire, riforme in grado di selezionare drasticamente gli interessi degli elettori attraverso meccanismi elettorali maggioritari, analogamente a quanto appena avvenuto in Francia. L’obiettivo è quello di avere uomini di governo forti, non perché titolari di un ampio consenso popolare, bensì perché il Paese, per far sentire la sua voce in Europa, ha bisogno di capi di governo forti. L’Europa, non da ora, incentiva tale processo di “disconnessione” dei vertici degli esecutivi nazionali dal proprio sistema politico e dalle proprie società nazionali: dinanzi alla crisi delle istituzioni rappresentative e dei partiti politici nazionali, i leader di governo attingono legittimazione dal “riconoscimento dei pari” che avviene in sede europea e, più in generale, internazionale (G8, G20, Nato, NU, ecc.). Per contare nelle sedi deputate al difficile governo della globalizzazione occorre avere uomini di governo forti, poco importa che questi godano solo del sostegno di minoranze di cittadini a livello nazionale.
La tesi patrocinata da Fabbrini è, però, quella per cui l’Italia, diversamente da Francia e Germania, avrebbe un’idea diversa d’Europa, più aderente alle reali esigenze di una federazione di Stati, un’idea che non punta sull’intergovernamentalismo quale metodo per guidare la difficile fase dell’integrazione europea fuori dalle sue secche. Per portar avanti quest’idea in maniera efficace in sede europea (cioè, in sede intergovernativa di Consiglio europeo), c’è bisogno di un governo italiano forte, almeno altrettanto forte di quelli francese e tedesco. Qui arriva il paradosso: com’è possibile raggiungere risultati differenti, in Europa, emulando i propri vicini? Ossia, com’è possibile che emulando sistemi politici e forme di governo capaci di esprimere capi di governo forti si possa pervenire a un esito per cui tali capi di governo forti, mano nella mano, decidano di pesare di meno nel governo (pardon: governance) dell’Europa?
Se l’obiettivo patrocinato da Fabbrini è pienamente condivisibile (costruire un sistema politico europeo che non sia la risultate di 27 sistemi politici nazionali), a me sembra che il mezzo per raggiungerlo non passi per una riforma dei sistemi politici e delle forme di governo nazionali di quegli stati più autenticamente federalisti, come saremmo noi. La costruzione di una sfera pubblica europea e di un connesso sistema politico è un traguardo alquanto chimerico, cui tuttavia non si può rinunciare se si crede negli ideali federalisti europei. Per realizzarla, tuttavia, occorrono sforzi di fantasia assai elevati e la presa d’atto che i vertici dei sistemi politici nazionali non accetteranno mai il proprio suicidio sull’altare dell’europeismo. Per i partiti nazionali non antieuropeisti, l’Europa resta un potenziale serbatoio di legittimazione nei confronti delle proprie società nazionali. Se l’Europa (l’UE, ovviamente), fosse davvero articolata in due spazi politici autenticamente distinti, lo spazio politico europeo rischierebbe di porsi gerarchicamente sopra lo spazio politico nazionale, e i partiti politici europei sarebbero indipendenti da quelli nazionali e dai loro leader. Forse sarebbero in grado di esprimere leader più forti e legittimati di quelli nazionali. Il che mi fa pensare che dagli attuali partiti nazionali europei, anche i più europeisti, non potrà mai giungere la spinta necessaria per il varo di una sfera pubblica e un sistema politico europeo. Quest’ultimo, a mio avviso, dovrebbe nascere in maniera totalmente autonoma dai partiti nazionali (che finora non hanno prodotto che gli ectoplasmi dei gruppi politici al Parlamento europeo).
Forse sarebbe il caso di ritornare all’origine dei partiti nazionali di massa e alla loro genesi dalle organizzazioni sindacali, anch’esse di massa, nate a tutela degli interessi dei lavoratori, al tempo volutamente ignorati dal sistema politico e dall’ordinamento giuridico “monoclasse” dello stato liberale. Un soggetto politico europeo potrebbe, forse, nascere da un forte sindacato europeo che metta assieme gli interessi dei lavoratori, specie di quelli più colpiti dagli effetti deflattivi della governance economica austeriana di questi anni. Il che porterebbe anche a demistificare il ruolo giocato dalla Commissione negli ultimi lustri: se alla Commissione spetta, da sempre, il ruolo di patrocinare l’integrazione europea al di sopra dei c.d. “egoismi nazionali”, quest’ultima ha giocato – secondo il mio schema concettuale – un ruolo intrinsecamente antieuropeo, impegnata com’è a indebolire i sindacati nazionali patrocinando, ad esempio, la contrattazione aziendale anziché quella collettiva nazionale. Il che è perfettamente coerente con la stessa istituzione della moneta unica, concepita anche per indebolire i sindacati e reprimere la conflittualità salariale in Paesi come la Francia e l’Italia.
L’Europa delle reti “tecnocratiche” dei giudici, delle banche centrali e delle autorità indipendenti, non è un’Europa in grado di far nascere una sfera politica autonoma da quelle nazionali. Né lo sarà un’Europa di reti di capi di governo “forti”. Un’Europa di lavoratori connessi da forti reti sindacali europee, forse.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
Propongo una riflessione sui alcuni concetti chiave dell’articolo:
Riformare i trattati UE: prima di riformarli proverei ad applicarli bene. Il tema è troppo complesso per aggiungere altro in una o due frasi.
Europa federale: nessuno a parte un paio di perdenti vuole oggi seriamente un’UE federale; più nessuno crede nello slogan (nell’errore) di ‘an ever closer union among the peoples of Europe’; la crisi e la Brexit hanno insegnato a tutti che serve più tempo e più convergenza per valutare una più stretta unione. Per il momento servono piuttosto regole che permettano o di uscire per chi non ci sta più o di espellere chi non ci sta alle regole.
Riformare l’Italia. Bisogna distinguere fra riforme strutturali (legali, fiscali, amministrative, infrastrutturali) e riforme istituzionali (elettorali e costituzionali); il fallimento del paese su entrambi i versanti è clamoroso. I risultati economici di quasi 5 anni di governo di centro-SX sono davanti agli occhi di tutti. La bocciatura popolare delle riforme istituzionali è la peggiore catastrofe politica del continente dopo la Brexit. L’80% positivo delle riforme è stato vanificato da un paio di elementi inaccettabili, sostanzialmente: 1. l’Italicum (una legge truffa per sostituire una legge truffa, o la sofisticazione di una truffa), 2. la composizione, il ruolo e le competenze bizantine del senato e la designazione partitica dei senatori, nonché dalla mancanza di un disegno d’insieme coerente (sia per il senato sia per i poteri dell’esecutivo).
Crisi della rappresentanza e crisi dei partiti: le due cose sono correlate; sembra che la crisi sia peggiore là dove i partiti si sono resi più incontrollabili e i loro capi più insostituibili.
Uomini politici forti e governi forti: non è la stessa cosa; basta paragonare la Svizzera e l’Italia, qua gli uomini forti, là le istituzioni forti. Un uomo forte ma responsabile (controllato, sostituibile) è una cosa ben diversa dei personaggi psicopatici che colorano il mondo politico (occidentale) da un certo tempo, soprattutto in Italia, ora pure negli USA, ma anche in UK fra i fautori della Brexit.
Decisioni collettive (pubbliche) condivise: non esistono decisioni comuni che vanno bene a tutte le minoranze. Anche l’inerzia è un’azione. Per agire bisogna trovare il più grande denominatore comune. Di solito la legge elettorale serve anche a questo. Maggioritario significa esattamente quello, la preferenza relativa del maggior numero di elettori ; bisogna tornare a Condorcet; o studiare direttamente Kenneth Arrow; la rappresentazione proporzionale dei partiti è un lusso che se si può permettere solo se o l’assemblea serve solo per approvare non per decidere, o se si aggiungono alcuni palliativi: l’elezione diretta (USA) o l’irresponsabilità (CH) dell’esecutivo, la sfiducia costruttiva (D), soglie di sbarramento molto alte, etc. Per prendere una decisione un’assemblea composta proporzionalmente da partiti deve comunque deliberare a maggioranza (a meno che si renda obbligatorio il voto in blocco per partito).
Italia federale; l’idea fa sorridere; in D, CH e USA i Laender, cantoni e stati sono autentiche democrazie, con assemblee elette attraverso procedure che in Italia non se si sognano nemmeno per il Parlamento nazionale, e con un esecutivo che dipende in un modo o nell’altro da queste assemblee locali. Nulla di ciò esiste in Italia. Al contrario da 20 anni si elegge il parlamento nazionale con una procedura truccata copiato dal modello regionale non proprio democratico.
Partiti nazionali e partiti europei; forse bisogna prima costringere i partiti nazionali a rispettare le regole democratiche, non creando uno statuto nazionale per rendere le strutture esistenti ancora più inespugnabili, ma garantendo ovunque i diritti individuali dei cittadini, la trasparenza e la competizione aperta fra uomini e idee. Se poi si riesce a replicare il successo nazionale anche a livello europeo, tanto meglio. Per il momento il rischio è quello opposto: un’intermediazione sempre più autocratica di associazioni private opache ed autoreferenziali con pretese di assistenza pubblica.
Partito di massa e stato liberale: esattamente 100 anni fa sono nati i partiti di massa, nella scia del suffragio sempre più universale; un altro elemento essenziale era la scuola dell’obbligo che ha (molto) lentamente creato la base per un dibattito pubblico democratico e per un voto consapevole; all’inizio le masse operaie e contadine non erano in grado di formarsi autonomamente un loro giudizio politico e necessitavano quindi di organizzazioni, inquadrature e guide. I partiti di massa e la rappresentanza proporzionale rispondevano a queste esigenze. Oggi il problema non è più l’ignoranza delle masse, ma semmai l’asimmetria dell’informazione e l’abuso di potere dei rappresentanti. Serve un ritorno allo stato liberale, non quello elitario di V.E. Orlando, ma quello vero, trasparente, aperto e democratico. Oggi tutti i cittadini devono essere protetti e garantiti contro il rischio di abuso di chi sta al potere (politico, economico, etc).
Sindacato nazionale e sindacato europeo; quello nazionale è sostanzialmente il difensore conservatore dei privilegi di una minoranza di anziani, occupati o pensionati. L’interesse di chi è sfruttato dal sistema è difeso più spesso da associazioni diverse, forse ancora poco organizzate per veicolare e promuovere una vera trasformazione della società a favore di una maggiore protezione degli individui (consumatori, lavoratori, studenti, elettori, utenti dei servizi più comuni).
Istanze tecnocratiche, giudiziarie e governative; la distinzione fra istanze di potere (politico, economico, amministrativo) e la massa dei cittadini è il concetto più promettente dell’articolo. Ma vedo male come l’input per la grande riforma possa venire dal mondo accademico. Servono doti di analisi e creatività. Ne vedo ben poche.
Ah, dimenticavo! non ho letto l’articolo di Fabbrini, né lo leggerò. Da almeno 12 anni non leggo più Il Sole 24 Ore; ho smesso quando appoggiava con il resto della stampa italica il diritto del governo di sforare, come Germania e Francia, i parametri di Maastricht sul defict. Ignoro gli altri giornali da molto prima. M’informo attraverso la rete (Lavoce.info, linkiesta, phastidio.net etc) e mi disintossico con il giornalismo di qualità di altri paesi: The Economist, The Guardian, Le Monde; c’è l’imbarazzo della scelta.