di Andrea Guazzarotti*
L’ondata estiva ci ha portato di nuovo a riflettere sul pericolo di un rigurgito fascista in Italia (v. il disegno di legge Fiano e lo stabilimento balneare neofascista di Chioggia). I dibattiti giornalistici più elevati accreditano la tesi di un’Italia che non ha mai veramente fatto i conti con il proprio passato, compreso quello coloniale (rispetto al quale, fondamentali sono gli studi di Angelo Del Boca). È interessante notare come la tesi dell’ambiguità italiana verso il proprio passato fascista (antidemocratico e liberticida) si leghi paradossalmente con gli sforzi fatti dalle élite politiche italiane tra la fine della guerra e l’inizio del nuovo regime democratico: se l’ambiguità della cobelligeranza impedì un effettivo rinnovamento e una ricostruzione morale, la guerra fredda e la connessa esigenza di recuperare in fretta l’Italia al blocco occidentale aiutò la rimozione e contribuì a perpetuare quell’ambiguità (Sara Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Bologna 2007, p. 150). L’impasse tra una politica di netta rottura col passato e i rigurgiti nazionalisti che si venne a determinare con la sigla del Trattato di pace di Parigi del febbraio 1947 (pieno di clausole punitive per il nostro Paese), fu superata grazie alla possibilità offerta all’Italia dal Piano Marshall, prima, dall’integrazione europea, poi, di rientrare tra le nazioni europee che contano (ibidem, pp. 116 e 133).
Qui sta, se si vuole, gran parte dell’ambiguità della stessa integrazione europea e del gioco che i partiti stanno attualmente conducendo. L’integrazione europea ha offerto su un piatto d’argento l’occasione di riscatto all’Italia, umiliata dall’esito della guerra e, soprattutto, dallo spirito punitivo del Trattato di pace del ’47; quest’ultimo trasudava da tutte le clausole la diffidenza delle Potenze vincitrici verso un’autentica trasformazione morale dell’Italia in senso antifascista (emblematici gli artt. 15 e 17, rispettivamente sull’obbligo di garantire i diritti umani a tutti i cittadini, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione, e sull’obbligo di impedire la rinascita delle organizzazioni fasciste, sotto ogni forma). Ma l’opportunità è stata forse troppo rapida e troppo condizionata dalla geopolitica della guerra fredda che si impose prepotentemente subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Insomma: ci siamo sforzati di dare credenziali di pacifismo e internazionalismo (v. l’art. 11 Cost. che si andava scrivendo prima e a ridosso del Trattato di pace del 1947) non (solo) perché davvero convinti, come popolo, dell’immoralità del fascismo e dell’ingiustizia del nazionalismo bellicista, bensì (anche) perché ciò forniva all’Italia un’ottima occasione per tornare a contare nel mondo (almeno, in Europa). Considerato tutto questo, è così sorprendente che, nelle secche in cui si trova oggi l’integrazione europea, torni a riemergere un certo istinto italico alla nostalgia di un passato di grandezza basato su valori antidemocratici?
I partiti sono abili a sfruttare tale ambiguità: il Movimento 5 Stelle, per bocca del suo leader Grillo, si auto-attribuisce il merito di aver impedito rigurgiti neo-fascisti, in esito alla grave crisi economica che dura ormai da più di sette anni, canalizzando la protesta entro argini democratici e non illiberali. Chi, da sinistra, riteneva insostenibile l’attuale assetto economico dell’UE e, specialmente, dell’Eurozona, guarda(va) alla crescita e al rischio di vittoria dei partiti ultranazionalisti (come quello della Le Pen in Francia), come l’unica plausibile molla capace di far crollare il castello di carte costruito sul liberismo autoritario e/o tecnocratico dell’Eurozona (Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Reggio Emilia 2016,p. 307). L’attuale frenata che la vittoria di Macron in Francia ha imposto all’ascesa dell’ultranazionalismo rischia di essere un falso successo. La partecipazione popolare alle elezioni (presidenziali, prima; parlamentari, poi) che hanno dato il potere politico al nuovo partito personale dell’ex banchiere di successo francese è stata bassissima. E il calo di partecipazione popolare alle recenti elezioni italiane (regionali e amministrative) sembra confermare tale tendenza anche per l’Italia. Lo scontento popolare si rifugia in strati sempre più profondi e lontani dal gioco legittimante della politica democratico-rappresentativa.
Le conclusioni da trarre non possono che essere provvisorie e discutibili: l’integrazione europea a ridosso del secondo conflitto mondiale ha rappresentato per alcuni, Italia in testa, un’occasione per uscire dal passato ma al contempo una delle ragioni che hanno impedito di fare appieno i conti col passato. La minaccia politica rappresentata allora dalla guerra fredda, che oltre a costringere il capitalismo a più miti consigli, induceva a bilanciare i diritti politici e civili con quelli sociali, è oggi venuta meno. Un suo debole sostituto, che le maggiori forze politiche maneggiano alla bisogna, è la minaccia di rigurgiti nazionalisti e/o fascisti in Europa.
La speranza è che quella minaccia venga presa sul serio dai politici chiamati a guidare il processo di integrazione europea: quest’ultima è stata, in primis, la molla che ha aiutato alcuni stati e alcuni popoli a superare il disastro materiale e morale della seconda guerra mondiale. L’idea di un’Unione europea ‘di competitività’, capace di costringere stati e popoli a essere più competitivi e produttivi, è arrivata dopo e rischia di mangiarsi l’idea precedente. L’esigenza di crescere economicamente, mettendo assieme alcune competenze sovrane come la moneta, non può e non deve far dimenticare l’esigenza di elevarsi solidalmente al di sopra dei propri fantasmi del passato. E quel «solidalmente» non indica solo la necessaria solidarietà fra gli stati, ma anche quella fra le classi sociali, posto che a caratterizzare il periodo storico che precedette il primo e il secondo conflitto mondiale non fu solo il nazionalismo bellicista, bensì anche il liberismo delle diseguaglianze estreme.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara