di Massimo Cavino
«Non sei un cavallo!». Vi ricordate la straordinaria interpretazione di Gian Maria Volonté nell’ “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri? L’anarchico interrogato e costretto alla scelta se rimanere in ginocchio per ore, senza poter appoggiare le mani al suolo (Non sei un cavallo!), o bere un litro di acqua salata.
Un’autentica tortura. O forse no. Forse in Italia no. L’Italia ha ratificato la “Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”, firmata a New York il 10 dicembre 1984 con la legge 3 novembre 1988, n. 498.
Tra gli obblighi che la convenzione impone alle parti contraenti è compresa l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento penale nazionale. L’articolo 4 della Convenzione stabilisce infatti che «1. Ogni Stato parte vigila affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale. Lo stesso vale per i tentativi di praticare la tortura o ogni atto commesso da qualsiasi persona, che rappresenti una complicità o una partecipazione all’atto di tortura. 2. Ogni Stato parte rende tali trasgressioni possibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità».
La legge approvata in via definitiva il 5 luglio che introduce nel codice penale l’articolo 613 bis, rubricato “tortura”, non adempie a tale obbligo.
Particolarmente significativa è la lettura della nota di presentazione del provvedimento, pubblicata sul sito della Camera dei deputati (http://www.camera.it/leg17/522?tema=reato_di_tortura ), che ammette come esso connoti «l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura che, in particolare, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale».
Ebbene. A nostro modo di vedere la coincidenza solo parziale tra la disciplina introdotta nel codice penale e quella richiesta dalla Convenzione rappresenta una mancata attuazione di quest’ultima.
La Convenzione definisce la tortura, all’articolo 1, come «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Così descritta la tortura può essere intesa come una fattispecie di reato proprio a dolo specifico. Essa non può essere commessa da chiunque, ma solo da chi agisca a titolo ufficiale, vale a dire a chi sia legalmente nelle condizioni di poter limitare la libertà altrui. Inoltre, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, il delitto si dovrebbe configurare solo quando l’agente sia spinto da una delle finalità citate dalla disposizione.
E di là dalla specifica definizione fornita dalla convenzione, è un dato assolutamente acquisito nel diritto internazionale che la tortura rappresenti una forma di abuso di potere.
L’articolo 613 bis del codice penale stabilisce invece che «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».
Gli aspetti critici sono sostanzialmente due.
In primo luogo la condotta può essere spesa da chiunque e senza una finalità precisa. L’ipotesi che ad incrudelire sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso di poteri, integra una mera circostanza aggravante.
In secondo luogo si deve sottolineare che la fattispecie è integrata dall’avere cagionato sofferenze con “violenze e minacce”. In sede di prima lettura, presso la Camera dei deputati, il testo era stato approvato prevedendo che la condotta punibile consistesse nell’avere agito con “violenza e minaccia”. La declinazione al plurale è stata introdotta nella seconda lettura in Senato e approvata definitivamente; essa comporta l’impossibilità di configurare come “tortura” una singola azione. Il poliziotto che costringa un cittadino fermato a rimanere in piedi e faccia al muro per venti ore consecutive non commette tortura se si è limitato a farlo in una sola occasione; così come il medico o l’infermiere che costringa nel letto di contenzione un malato per più di ottanta ore. Nel caso di singoli episodi saranno eventualmente applicabili altre fattispecie di reato nella forma di manifestazione aggravata, prevista dall’articolo 61, n.4, del codice penale, dell’avere adoperato sevizie o agito con crudeltà. Si tratta di una limitazione dell’operatività della sanzione penale incompatibile con la convenzione che, come abbiamo visto, qualifica come tortura «qualsiasi atto» riconducibile allo schema tipico da essa prescritto.
Alla luce di queste rapide osservazioni possiamo concludere che il nuovo articolo 613 bis del codice penale, malgrado la sua rubrica, non punisce la tortura.
Le ragioni per le quali il Parlamento non voglia dare attuazione alla convenzione del 1984, come potrebbe fare limitandosi a stabilire una sanzione penale per la condotta che essa descrive con sufficiente determinatezza, sono manifestate con chiarezza dal dibattito che ha accompagnato la recente approvazione della legge; e si riducono essenzialmente nella volontà di non urtare la suscettibilità politica degli appartenenti alle forze di polizia che purtroppo finisce per alimentare una cultura autoritaria ancora molto diffusa.