di Roberto Bin
È un gioco che la mia generazione (quella del ’68) conosce benissimo: si era sfiorato il virtuosismo, alle volte, nell’uso di questa tecnica. Qualsiasi proposta che osasse avanzare una soluzione di un qualche tipo al problema emerso nel dibattito, veniva immediatamente svalutata e scartata perché “ben altro” era il problema, la sua causa, la prospettiva corretta in cui cercare invece la soluzione, impossibile ovviamente.
I benaltristi sono i protagonisti della discussione attorno alla legge elettorale. Qualcuno avanza una proposta un po’ alchimistica, un cocktail dominato da un bel premio di maggioranza che si fa carico di assicurare la “governabilità” (nella sua italica riduzione a “possibilità di fare un governo che abbia in parlamento una maggioranza stabile”)? Macché, ben altro è il problema: la ingovernabilità (nella italica riduzione che si è detta) dipende dalla crisi del sistema politico, e questo non lo rimetti in piedi con una legge elettorale. E allora? Meglio un sistema proporzionale che metta i partiti di fronte a se stessi e li costringa a cucire maggioranze serie in parlamento. Almeno si guadagna in rappresentatività, ognuno vedrà in parlamento maglie con i colori del suo club e ne sarà soddisfatto! Se la società è politicamente frammentata non la si può ricomporre per legge. Bella soluzione! Ma ben altro servirebbe per riportare la politica vicino ai cittadini, non certo incentivare lo spettacolo di un parlamento messo in mano a coalizioni instabili, trasformiste, irresponsabili.
Meglio allora adottare un sistema maggioritario uninominale, così ognuno conosce colui per cui vota. Già, ma poi in parlamento come si ritroveranno in un unico gruppo parlamentare di maggioranza gli eletti in centinaia di liste civiche o coalizioni multicolore che mettono assieme un po’ di ecologisti, un po’ di pensionati, un po’ di autonomisti, qualche esponente di questa o quell’anima della formazione politica nazionale (che quindi pretende di intestarsi la vittoria elettorale), qualche cittadino di peso che però si presta alla politica senza sentirsene condizionato, un prete operaio e un attore impegnato, un cantante già da tempo bollito ma sempre in televisione, il presidente del club sportivo? Ben altro è il modo con cui si crea una coalizione politica, ci ricordiamo del programma dell’Ulivo e della vittoria di Prodi nel 1996? Quello è il modo con cui la politica deve presentarsi agli elettori, grandi strategie, grandi ideali. Così la maggioranza che vince si assesta anche nella società, nel cui consenso ideale alimenta le sue radici.
Già, ma poi c’è stato Bertinotti e la caduta del governo Prodi, sconfitto per un voto; e c’è stato il sacrificio di D’Alema che accettò di assumersi il peso del governo per il bene del paese anziché affrontare subito nuove elezioni proprio in quella delicatissima fase. Grazie ad entrambi. Il che ci riporta al punto di partenza: non basta neppure avere una larga e salda coalizione, un programma ben studiato e un buon margine di voti in parlamento. È forse lì che si annida il problema. La legge elettorale? Ben altro è il problema, i partiti non mantengono la disciplina in parlamento, non ci sono armi per tenere insieme a lungo quelli che avevano accettato di presentarsi assieme alle elezioni.
Purtroppo i benaltristi hanno sempre ragione. Non per la forza degli argomenti, ma per la vecchia tattica degli Orazi. Presi uno alla volta gli altri argomenti possono essere facilmente battuti. Ma poi? Nel ’68 si finiva a bere vino e fumare Gauloises, oggi ci si limita a deridersi e un po’ a insultarsi. Tuttavia, se non vogliamo rassegnarsi alla sorte dei Curiazi, una via d’uscita si potrebbe trovare. È vero che nessun sistema elettorale basta e raddrizzare un sistema politico, ma qualcosa può fare in un senso o nell’altro, ossia favorendo o sfavorendo il consolidamento dei partiti e delle coalizioni. Qualcosa si può fare modificando le norme interne delle Camere: e non rinuncerei ad immaginare che non solo i regolamenti, espressione della sovranità delle Camere, possano incidere, perché anche le leggi in qualche misura lo possono fare. A partire dal nodo più importante, che è l’ordinamento dei partiti, il loro finanziamento, il finanziamento dei gruppi, la struttura dei costi delle due assemblee, i principi (e le regole) contabili che anche esse devono rispettare (troppo facile prendersela soltanto con le assemblee regionali!). Qualcosa di più preciso si potrebbe forse delineare.
Primo, il finanziamento pubblico dei partiti. È il principio che vale in tutti i paesi europei e nella stessa Unione europea. Per i noti motivi da noi si è deciso che con quest’anno è finito: o meglio, è mediato (perché i soldi restano pubblici) dall’indicazione eventualmente contenuta nella nostra dichiarazione IRPEF. L’attuale legge a me pare palesemente incostituzionale, quantomeno perché crea i partiti dei ricchi, che sono pochi ma posso donare molte tasse (ammettendo che le paghino), e quelli dei poveri, che sono tanti e spesso sotto il limite della tassabilità. Anzi, forse per essere sicuri del risultato, gli atti attuativi della legge 13/2014 escludono che possano essere calcolate somme inferiori a 12 euro, così rendendo ininfluente l’opzione di coloro che dichiarano un reddito inferiore a 6.000 euro.
Ma c’è anche un altro aspetto della legge che mi preoccupa ancora di più. Tutto il meccanismo del finanziamento indiretto dei partiti è orientato a concentrare le risorse nelle segreterie nazionali dei partiti, trascurando le loro articolazione locali, malgrado le ipocrite “dichiarazioni di principio” degli Statuti, in alcuni casi ispirate ad una visione “federale” che fa a botte con la loro realtà organizzativa. Commentando i risultati del referendum costituzionale nel Sud Italia, Roberto Saviano ha formulato un’osservazione assai acuta: secondo lui l’errore di Renzi sarebbe stato quello di optare per un “usato sicuro”, fatto di vecchi politici capaci di promettere pacchetti di voti “sicuri”, anziché rischiare di perdere un turno elettorale consentendo però a volti nuovi e a nuove energie di entrare in partita e ritessere una base politica mobilitando persone che vivono il malessere sociale ma sono ancora disposte a impegnarsi in un progetto politico.
A me sembra che questa analisi ci mostri con chiarezza come di solito sia mal posta sia la questione del finanziamento dei partiti, sia quella della legge elettorale. L’idea che tutto si svolga al centro e che la politica abbia come suo teatro lo scontro tra leader in televisione mi sembra un’idea povera, incapace di produrre quella rigenerazione della politica che a parole tutti auspicano. Bisogna – io credo – investire nei partiti, ma sapendo dove si mettono i soldi. Anche qui è questione di regole.
Secondo, l’ordinamento dei partiti. La trasparenza interna ai partiti deve essere imposta e controllabile: imporla non serve, se le imposizioni non sono efficaci e il loro rispetto non è sottoposto a vigilanza. Imporre forse non è neppure la strada giusta. In molti degli Stati Uniti le leggi elettorali sono composte di pochissime norme, e anche per le primarie si fa riferimento alla disciplina che si sono autonomamente scelti i singoli partiti o, come nello Stato di New York, ci si limita a conferire la forza di legge alla disciplina interna. Questo è un modo per imporre l’emersione della gestione e l’estensione della legalità, della regolarità e della controllabilità ai momenti fondamentali della vita politica, ai modi con cui si determina la politica del paese; un modo per introdurre il metodo democratico all’interno dei partiti. Ed è anche un modo per spingere i partiti a competere sul terreno delle regole, a farsi un vanto di aver adottato regole più democratiche e più controllabili. Mi sembra che si possa fare un passo importante scrivendo una legge sul finanziamento dei partiti che proponga uno scambio “soldi per trasparenza”, “finanziamento per legalità”. Anche i rapporti finanziari tra segreterie nazionali e strutture periferiche del partito dovrebbero essere una “voce” su cui l’ordinamento interno del partito deve essere tenuto a fare chiarezza.
Terzo, regolare i rapporti tra coalizioni elettorali, partiti e gruppi parlamentari. È chiaro che finanziare – come, ripeto, accade in tutta Europa – la campagna elettorale dei partiti e premiarli finanziariamente per i risultati conseguiti implica introdurre regole stringenti sui rapporti che intercorrono tra candidati, coalizioni, eletti e gruppi parlamentari. Chi ha una crisi di coscienza resti pure in parlamento, protetto dal divieto di mandato imperativo, ma non vedrà più un quattrino, non potrà passare ad altro gruppo e dovrà sopportare conseguenze anche più drastiche che siano strettamente funzionali al sistema elettorale prescelto. Regole efficaci e anche dure credo che possano essere formulate (anche con legge ordinaria, ripeto) senza passare la linea della legittimità costituzionale se esse sono ben calibrate sulla logica del sistema elettorale prescelto e sul sistema di finanziamento pubblico. Siamo vittime di un “pensiero debole” costituzionale che ha eretto feticci intoccabili a presidio della “inviolabilità” della politica e del suo club parlamentare (si prenda ad esempio la lettura integralista dell’art. 66 Cost. e le “zone franche” dal controllo giurisdizionale delle elezioni che ne conseguono). Per fare certe cose non occorre riformare la Costituzione, basterebbe attuarla con un po’ di intelligenza e una certa dose di anticonformismo.
Quarto, il sistema elettorale. Ci siamo. Ma se avessimo idee più chiare sui primi tre punti, forse anche il quarto diverrebbe facile da impostare. Non ho mai molto amato il Mattarellum, ma sulla sua base – che sembra abbastanza accettata dai parlamentari attuali – si potrebbe elaborare qualcosa di piuttosto funzionale. Soprattutto se avessimo la certezza di non veder iniziare, il giorno dopo le elezioni, il triste gioco del tirare freccette al proprio governo per dimostrare a tutti che si è vivi.
Diritto costituzionale o scienze politiche?
La storia caotica della normativa elettorale italiana non ha paragone in alcun paese europeo a tradizione democratica. La colpa più grave non è degli attori politici e dei loro consulenti, interessati, ma della comunità accademica, degli scienziati politici e dei costituzionalisti. I due mestieri sono ormai difficile a distinguere quando si parla di legge elettorale. Questa confusione di due logiche diverse è un errore, una mancanza di rigore da parte dei costituzionalisti. Senza inquadratura rigorosa e condivisa, i politici più astuti sfruttano l’incertezza dottrinale a proprio vantaggio. Le scienze politiche hanno finito per invadere la giurisprudenza della Corte che nelle ultime sentenze confonde sistematicamente l’ordine dei diritti sanciti dalla Costituzione e l’ordine delle opportunità e degli obiettivi politici, trasformando se stessa da garante dei diritti fondamentali in sovrano politico .
Tre anni fa ho contestato questo aspetto semplice ed evidente della sentenza 1/2014: http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2014/0011_nota_1_2014_schmit.pdf.
Ho riformulato la critica in modo più articolato in occasione della sentenza35/2017:
https://independent.academia.edu/Schmit,
https://www.academia.edu/33331644/La_garanzia_dei_diritti_elettorali_fondamentali.
Non interessa quasi nessuno.