di Salvatore D’Acunto*
Nei giorni scorsi, il dibattito in corso in parlamento per la modifica della legge sulla cittadinanza ha costituito il pretesto per l’ennesimo rigurgito di xenofobia ad opera di una parte consistente dell’opinione pubblica. Dico “pretesto” perché è evidente che solo una piccola minoranza dei partecipanti alle tante e interminabili discussioni che impazzano sui social media hanno effettiva consapevolezza del testo in discussione, e quindi sono in grado di entrare nel merito delle problematiche che scaturiranno dall’applicazione del dispositivo normativo in discussione.
La verità è che, esprimendosi sullo ius soli, i cittadini stanno provando a dire la loro sul più generale tema delle politiche per l’immigrazione e, ad una analisi anche sommaria dell’aria che tira, appare evidente che una parte consistente della comunità nazionale ritiene “pericoloso”, per molte ragioni (economiche, politiche, di ordine pubblico, ecc.), il proseguimento della “politica della porta aperta” che ha caratterizzato negli anni scorsi l’atteggiamento dei nostri governi. Fermare quella che viene definita un po’ terroristicamente “l’invasione” del territorio dello stato sarebbe, a giudizio di questa consistente parte dell’opinione pubblica, un obiettivo politico di estrema urgenza e da perseguire con ogni forma di disincentivo, dalla negazione agli immigrati dei diritti connessi alla cittadinanza fino al disimpegno dalle operazioni di salvataggio nelle acque del Canale di Sicilia.
Non è mia intenzione affrontare la questione dal punto di vista etico. Mi interessa invece far rilevare come chi sostiene queste posizioni abbia evidentemente un’idea assai vaga di come funziona il mondo in cui viviamo, di quale sia la natura delle interdipendenze che legano tra loro le popolazioni delle diverse nazioni, e quali siano quindi le reali forze che spingono una gran massa di individui proveniente da Africa e Medio Oriente a imbarcarsi in un’avventura dalle prospettive così aleatorie come quella dell’emigrazione verso l’Europa.
Se fosse vero che costoro, molto romanticamente, vengono in Europa “a cercar fortuna”, come tanti autorevoli commentatori sostengono, allora la “politica della porta chiusa” avrebbe un senso. Probabilmente sarebbe indifendibile sul piano civile e morale, ma avrebbe un senso. Basterebbe far capire con metodi più o meno urbani che da noi non c’è trippa per gatti, e i migranti riporrebbero rapidamente il loro sogno di fortuna in un cassetto e si adatterebbero alla loro dura realtà. Purtroppo, però, questa lettura della vicenda è assai poco realistica. Gli imponenti fenomeni migratori verso l’Europa a cui abbiamo assistito dall’alba del nuovo millennio, infatti, sono determinati infatti da ordini di ragioni completamente diversi dalla “ricerca di fortuna”.
In primo luogo, i migranti fuggono dai conflitti di natura etnica, politica o religiosa che insanguinano stabilmente gran parte dell’Africa e del Medio Oriente. Nello scatenamento di questi conflitti, il ruolo svolto dai paesi occidentali è evidentemente decisivo. A volte questo ruolo è stato diretto: Libia e Siria, ad esempio, sono state destabilizzate per esplicite motivazioni di ordine geo-politico-economico. Altre volte, questo ruolo è il risultato inintenzionale dell’attività di importanti attori del mondo della produzione: le industrie produttrici di materiale bellico, continuamente alla ricerca di sbocchi di mercato profittevoli, e che evidentemente annoverano tra i loro migliori clienti i “signori della guerra” che di fatto fanno il bello e il cattivo tempo negli stati falliti dell’Africa e del Medio Oriente.
Queste non sono opinioni in libertà, ma affermazioni supportate da significativi riscontri empirici. In un saggio di imminente pubblicazione (S. D’Acunto, F. Schettino, “Per qualche dollaro in più? Una valutazione empirica della teoria del “migrante razionale”, in S. D’Acunto, A. De Siano, V. Nuzzo, a cura di, Fenomenologia dei flussi migratori e condizione giuridica dello straniero, ESI, Napoli), Francesco Schettino ed io abbiamo rilevato un impatto assai significativo dei conflitti sulla dimensione dei fenomeni migratori. In un bel libro che ho avuto occasione di leggere recentemente (R. Caruso, https://www.amazon.it/Economia-della-pace-Raul-Caruso/dp/8815267565), Raul Caruso dimostra che c’è una correlazione fortissima tra importazioni di armi in una determinata area e relativa intensità dei conflitti. Tutto sommato niente di sorprendente: le armi hanno sempre esacerbato i conflitti bellici, le guerre hanno sempre determinato migrazioni. Un catena causativa assai banale, in fondo.
Il secondo fattore esplicativo delle migrazioni verso l’Europa è il sistematico saccheggio della superficie coltivabile dell’Africa e di ampie aree del sud-est asiatico che è in corso ad opera di multinazionali, fondi di investimento, fondi pensione e persino governi di vari paesi industrializzati. Si tratta di un fenomeno di dimensioni imponenti, ampiamente documentato in una letteratura che sta diventando ormai assai abbondante (Oxfam, https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2011/09/La-Nuova-Corsa-allOro-Oxfam-Italia-ok-21-09-2011.pdf; S. Liberti, https://www.ibs.it/land-grabbing-come-mercato-delle-libro-stefano-liberti/e/9788875213251; S. Sassen, https://www.mulino.it/isbn/9788815258007).
Dopo il prosciugamento delle bolle di Internet e dei mutui subprime, la finanza globale ha infatti scoperto una nuova miniera di profitti nell’acquisto di terre nel sud del globo e nella loro destinazione (a) alla coltivazione di cereali (olio di palma, arachidi, canna da zucchero) per la produzione di biocarburanti; (b) alla coltivazione di soia, frumento, riso e orzo, attività resa particolarmente redditizia dall’impennata dei prezzi delle derrate alimentari verificatasi nell’ultimo decennio; (c) all’attività di estrazione del petrolio e delle c.d. terre rare, ossia quei minerali (cadmio, lantanio, tulio, cerio, europio) indispensabili alla costruzione di prodotti hi-tech di largo consumo (smartphone, televisori, computer, batterie per automobili), i cui prezzi sono anch’essi schizzati alle stelle negli ultimi anni.
Chi analizzasse questo fenomeno con gli occhiali del New Consensus politico-filosofico consolidatosi in Occidente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, liquiderebbe probabilmente le preoccupazioni che esso suscita in un numero sempre maggiore di studiosi con una alzata di spalle. «È la globalizzazione, sciocco!», risponderebbero in coro i tanti apologeti delle straordinarie qualità del libero mercato. «Abbiamo costruito un sistema che permette che si compri e si venda tutto ciò a cui può essere dato un prezzo apposta perché in tal modo tutti gli asset produttivi finiscano nelle mani di chi può trarne il risultato migliore», direbbero i divulgatori sbrigativi di Ronald Coase. «Se i governi dell’Etiopia o dell’Indonesia fossero stati in grado di sfruttare le loro terre meglio degli accaparratori stranieri se le sarebbero tenute, se le vendono vuol dire che hanno tutto da guadagnarci».
Può essere. Ma forse sarebbe interessante interrogarsi sulle conseguenze di questo modello. Ora, chiunque abbia una anche vaga idea di come funzionano i processi produttivi in agricoltura, sa bene che c’è una differenza di fondo tra un’area coltivata da una comunità di villaggio o da piccole unità produttive a base familiare, e un’area coltivata da una multinazionale dell’industria alimentare.
Nel primo caso, la gran parte della produzione sarà destinata all’autoconsumo, il processo produttivo sarà quindi tipicamente policolturale e il livello di meccanizzazione assai primitivo; ma se la proprietà di quella stessa area viene trasferita ad una multinazionale del settore alimentare, che non è motivata da obiettivi di sussistenza ma dalla massimizzazione dei profitti, questa si specializzerà in una monocoltura, rendendo quindi possibile una sistematica meccanizzazione del processo, e rendendo pertanto ridondante una gran quantità di manodopera. Inevitabile che la popolazione lavorativa diventata eccedente venga quindi “espulsa” e cominci a vagare alla ricerca di una nuova collocazione produttiva. Le migrazioni verso l’Europa sono in gran parte l’esito di questo imponente processo di espulsione di popolazione eccedente determinato dal riassetto in senso capitalistico della proprietà che sta avendo luogo nel sud del globo e dal conseguente processo di riconversione delle produzioni agricole.
Alla luce di quanto detto, verrebbe da suggerire, a coloro a cui fa tanta impressione dividere il territorio con gente con cui non condividono cultura, storia, religione e abitudini di vita, una ricetta tutto sommato molto semplice per evitarlo: (a) evitare di destabilizzare l’Africa e il Medio Oriente con interventi militari diretti e di esportarvi armi destinate inevitabilmente ad alimentare conflitti nell’area; (b) istituire forme di controllo sugli investimenti occidentali nei paesi del Terzo Mondo, ostacolando quelli che hanno un impatto eccessivamente destabilizzante sulla struttura produttiva di quei paesi. Insomma, “tradire” alcuni principi chiave del fondamentalismo liberista che permea tutta la nostra cultura politica ed economica a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Affermare l’idea che non tutto si può vendere e comprare liberamente (ad esempio le armi no) e che gli investimenti all’estero che implicano un forte impatto sulle condizioni di vita delle popolazioni locali andrebbero sottoposte all’approvazione di autorità di regolamentazione internazionali e andrebbero in ogni caso affiancate da interventi intesi a ricollocare la popolazione eventualmente espulsa dalle aree di origine.
Ovviamente ci sarebbero dei “piccoli” inconvenienti. Smantellare l’industria bellica e trovare collocazione ai disoccupati che lascerà sul campo, ossia cercare in altri mercati i compratori con cui sostituire quegli ottimi e affidabili clienti che sono i signori della guerra. Immaginare riassetti produttivi che permettano all’Europa di non dipendere eccessivamente dai mercati per l’approvvigionamento alimentare, e quindi magari un costo leggermente più elevato della bolletta alimentare. Probabilmente rendimenti più bassi dai nostri risparmi investiti nei fondi pensioni.
Però possiamo scegliere: o il dominio incontrastato dei mercati delle merci e dei capitali sulle nostre vite, con le migrazioni imponenti che ne sono l’inevitabile effetto; oppure un’altra forma di organizzazione del mondo, tutta da inventare ma comunque basata sull’allentamento delle interdipendenze economiche, con flussi migratori ridotti a quella ristretta (e fisiologica) schiera di romantici “alla ricerca di fortuna”. A me, al limite, può star bene anche il capitalismo globalizzato. Non mi fa fare i salti di gioia, ma posso sopravvivere. Basta essere consapevoli del fatto che, se per riprodurne l’esistenza abbiamo bisogno di una periferia da destabilizzare sistematicamente, è inutile stare a lamentarci se il “materiale di risulta” della periferia destabilizzata disturba i nostri sonni e il nostro ideale di purezza etnica.
*Professore associato di Economia politica, Università della Campania “L. Vanvitelli”