di Fulvio Cortese
La vicenda è vecchia, ma una recente sentenza del Tar Sardegna ci invita a ricordare che negli armadi chiusi si nasconde sempre qualche scheletro.
Nel 2009, in piena stagione di “ordinanze pazze” (quelle, per intendersi, che molti sindaci si sono ben presto sentiti abilitati ad adottare a tutela della sicurezza urbana in seguito alla modifica dell’art. 54 del TU enti locali, così come introdotta dal “pacchetto sicurezza” varato nell’estate 2008), il primo cittadino di un piccolo comune sardo prescrive l’affissione del crocefisso in tutti gli edifici pubblici presenti nel territorio comunale. Il provvedimento viene impugnato di fronte al giudice amministrativo dall’Uaar (Unione Atei ed Agnostici Razionalisti), ma è lo stesso sindaco a revocarlo, pochi giorni dopo la notifica del ricorso. Passa dunque qualche anno e il Tar, investito della decisione, preso atto della sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento di un provvedimento che da tempo non spiega più alcun effetto, decide di pronunciarsi comunque, e sia pur brevemente, sulla legittimità di quell’atto, stimolato dalla corrispondente richiesta dell’Uaar. L’occasione si rivela proficua per lasciare, per così dire, un segno.
Secondo il Tar Sardegna, infatti, il ricorso – a prescindere dalla considerazione dei “vizi formali dell’ordinanza impugnata, divenuti irrilevanti in seguito alla revoca del provvedimento medesimo” – non è fondato, poiché “la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, con sentenza del 18 marzo 2011, ric.30814/06, ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, affermando che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale”. La stessa Corte, infatti, avrebbe evidenziato “che, secondo il principio di sussidiarietà, è doveroso garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale e quanto al luogo della loro esposizione”; del resto, “in caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione”.
Questa è la decisione. E i motivi per rimanerne perplessi sono tanti. Qui occorre segnalarne almeno due.
Primo: senza voler tornare sulla condivisibilità o sulla tenuta complessiva della famosa decisione della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (rammentiamo che in quella sentenza si argomenta lungamente, e curiosamente, sul carattere passivo, e quindi non lesivo, del simbolo religioso considerato nell’atto della sua mera ostensione pubblica…), si può senz’altro dubitare che basti il riferimento a questa giurisprudenza per concludere che sia del tutto legittimo prescrivere con un’ordinanza sindacale l’obbligo di affissione di un simbolo religioso in ogni edificio pubblico del territorio comunale.
Dalla lettura della pronuncia e della sua sintetica motivazione, viene quasi da pensare che il giudice abbia ritenuto come attinente al novero degli irrilevanti “vizi formali” tutti i profili procedimentali che consentirebbero, in ipotesi, di adottare un’ordinanza di questo genere e che, precisamente, permetterebbero di ricondurre a razionalità l’esercizio di un potere atipico: in primis, la motivazione sull’attinenza del tema religioso alla tutela della sicurezza urbana e sulle specifiche ragioni che puntualmente avrebbero dovuto sorreggere, in concreto, l’urgenza dell’intervento istituzionale del sindaco. La Corte costituzionale (sentenza n. 115/2011) ha evidenziato la necessità di rispettare rigorosamente questi limiti.
Per non dire del fatto che, diversamente concepita, l’ordinanza si trasforma da strumento potenzialmente proporzionato e flessibile per emergenze specifiche in mezzo di propaganda politico-culturale e religiosa, incorrendo in un chiaro vizio di sviamento di potere. Si può davvero ammettere che – visto che per il fatto di prescrivere l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche l’Italia non è stata condannata – i sindaci possano farsi profeti?
Secondo: ammesso che sia corretto sostenere, con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che in materia di simboli religiosi gli Stati mantengono un proprio margine di apprezzamento, che fare, sul piano interno, del rispetto della riserva di legge, costituzionalmente prevista, in tema di libertà religiosa? E che fare, inoltre, del doveroso rispetto del principio di legalità sostanziale?
L’impressione – ahimè disarmante – è che la lunga questione del crocefisso abbia ancora insegnato poco alla giurisprudenza nazionale, e che vi sia, anzi, una convinzione diffusa, specie nei giudici amministrativi, sulla possibilità che in proposito vi sia la più ampia discrezionalità amministrativa e che questa possa farsi tranquillamente fonte di valutazioni e decisioni orientate da presupposizioni culturali assai critiche.
Basti ricordare che, ancor oggi, la tesi seguita da Tar e Consiglio di Stato sulla legittimità dell’ostensione del crocefisso nelle aule scolastiche è quella che si fonda sul suo preteso carattere laico, confermativo e affermativo della laicità repubblicana (e ciò perché – sic – la dottrina cristiana, di cui il simbolo è espressione, si farebbe veicolo dei principi e dei valori di solidarietà e di eguaglianza di cui anche la nostra Costituzione si fa carico: verrebbe da domandarsi se i credenti siano così contenti di questo battesimo laico delle proprie convinzioni più intime…). Il rischio, qui, non è tanto che un crocefisso venga esposto, quanto che a restare, in fondo, crocefisso sia il giudice, con la sua preziosa e irrinunciabile immagine di soggetto indipendente e imparziale.
Un’ultima notazione è indispensabile. Se questo è ciò che resta, ancora, dell’intensa stagione delle “ordinanze pazze” e del dibattito che ne era seguito, c’è da nutrire poca fiducia sulla capacità razionalizzatrice della giurisprudenza dinanzi alle rinnovate – e sofisticaste – insidie del recente restyling del potere di ordinanza sindacale, così come rivisto dal decreto Minniti. Se si ritiene seriamente che sia ammissibile e legittimo allocare alle autorità locali la gestione di diritti e libertà delicati e assai fragili, allora si deve esigere veramente che i giudici siano vigili custodi dello stato di diritto.