Edifici di culto tra libertà religiosa e controllo del territorio

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di Nicola Pignatelli*

Le vicende locali (in Lombardia, in Toscana) stanno facendo emergere in modo sempre più forte la problematica tensione tra il bisogno materiale, da parte di molteplici confessioni religiose, di luoghi da destinare al culto (da realizzare o da utilizzare) e le esigenze di controllo del territorio comunale. Su questo crinale vive il difficile bilanciamento tra il diritto costituzionale ad un edificio di culto, quale dimensione autonoma della libertà religiosa, e il potere pubblico di pianificazione urbanistica. La libertà religiosa ha, infatti, un’incomprimibile doppia anima: non solo quella meta-fisica (di contatto con la dimensione divina) ma anche quella fisica (urbanistico-edilizia), in cui un certo bene immobile (una chiesa, una moschea, uno scantinato o finanche un giardino), costituisce esso stesso il ponte tra le due. Proprio la dimensione fisica della libertà religiosa la pone in contatto con le scelte delle Amministrazioni locali e genera un autonomo diritto (e problematica) costituzionale.

Tuttavia non si tratta certamente di un diritto costituzionale “pieno” (che si risolverebbe in un obbligo per le Amministrazioni comunali di soddisfare qualsiasi pretesa di spazio) ma di un interesse legittimo costituzionale a veder acquisiti, valutati e selezionati dall’Amministrazione comunale i bisogni materiali delle persone (cittadini o stranieri), che vogliono praticare il proprio culto, qualunque esso sia. Ciò che conta sono proprio le persone prima che i gruppi confessionali organizzati. Nel contenuto minimo essenziale del diritto costituzionale ad un edificio di culto, infatti, deve stare una de-istituzionalizzazione della rappresentanza degli interessi; più semplicemente, ciò che l’Amministrazione comunale deve acquisire sono gli interessi omogenei delle persone. In questa logica il momento fondamentale in cui si misura la effettività di questo diritto costituzionale non è il momento pianificatorio ma quello pre-pianificatorio e ancor prima quello della disciplina (da parte dei legislatori regionali) degli istituti di emersione degli interessi religiosi omogenei. Soltanto la regolazione di ciò che sta prima dell’atto di pianificazione urbanistica, espressione di ampia discrezionalità politica, può operare come limitazione del potere e dell’arbitrio discriminatorio.

La previsione di istituti partecipativi, pre-pianificatori, è certamente un baluardo per l’acquisizione dei bisogni sociali ad un luogo di culto, di trasparenza sulla selezione dei bisogni da soddisfare e di quelli da sacrificare nonché il presupposto per il perfezionamento di accordi pubblici tra i Comuni e le formazioni sociali a connotazione religiosa, sia quando queste abbiano la proprietà o la disponibilità del terreno su cui realizzare l’edificio di culto, sia quando non vi sia neppure la disponibilità e si prospetti verso il Comune una pretesa ancora più intensa.

Proprio la penuria di territorio occupabile, soprattutto nei centri storici, e i flussi migratori, sempre più massicci, rendono costituzionalmente necessaria quindi la previsione non tanto di inchieste pubbliche  o l’attivazione di referendum locali consultivi, ma la regolazione di istituti caratterizzati dai profili propri del giusto procedimento amministrativo,  attivati a seguito  di avvisi pubblici di manifestazione di interesse, scanditi nei termini e fondati su criteri selettivi trasparenti e non formalistici. Pertanto la matrice de-istituzionalizzata del diritto costituzionale ad un edificio di culto impone, a monte, al legislatore regionale di non fondare le proprie scelte sul criterio quantitativo, ossia sul criterio maggiormente legittimante il perpetuarsi di esclusioni sociali delle minoranze confessionali.

Sono di dubbia legittimità molte leggi regionali vigenti, tese a privilegiare, in una logica quantitativa e istituzionalista, i bisogni religiosi di spazi urbani della maggioranza o di confessioni già fortemente radicate e diffuse. Servono al contrario nuove discipline di procedimenti di valutazione e selezione delle istanze sociali, tese alla formazione degli accordi a monte (e non semplicemente a valle) dell’atto di pianificazione, nella logica della urbanistica consensuale, fondata sulla buona pratica dell’ascolto, quindi di un modello in cui un accordo possa predeterminare la localizzazione degli edifici di culto e la ripartizione dello spazio urbano. In altre parole serve un cambio di passo.

Questa “nuova” legislazione, tesa a generare trasparenza sulla edilizia di culto, diventerebbe l’unico strumento effettivo e preventivo, in questo ambito, per il controllo del territorio e per la sicurezza urbana. I legislatori regionali devono avere il coraggio di mettere mano alla legislazione sull’edilizia di culto, in un modo banalmente diverso da quello lombardo, già sanzionato dalla Corte costituzionale; una problema di “governo del territorio”, in cui i Comuni non possono essere lasciati nella solitudine delle loro competenze.

*Ricercatore di Istituzioni di Diritto Pubblico, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

 

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