di Valentina Pupo *
Un recente caso di cronaca giudiziaria riporta alla ribalta la questione della compatibilità con l’attuale assetto costituzionale di talune fattispecie di vilipendio politico, contro la Repubblica, la nazione italiana e le istituzioni dello Stato, in particolare per il loro asserito contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che, com’è noto, prevede il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Si tratta della vicenda di un cittadino tunisino, sotto processo a Milano, con l’accusa di vilipendio alla nazione italiana, per aver affermato, nel 2015, reagendo ad un controllo anti-droga di polizia, che “l’Italia è un posto di m…”. L’illecito in questione, fattispecie comune contemplata all’art. 291 del codice penale (“Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana”), era in origine sanzionato con la reclusione da 1 a 3 anni, mentre in seguito alla riforma dei reati di opinione, intervenuta con la legge n. 85/2006, è ora punito con la pena pecuniaria della multa da 1000 a 5000 euro.
La norma potrebbe giungere all’attenzione della Corte costituzionale se il giudice della seconda sezione penale del Tribunale di Milano dovesse accogliere l’eccezione di illegittimità costituzionale presentata dall’avvocato dell’imputato, imperniata proprio sul citato contrasto del disposto di cui all’art. 291 del codice penale con la libertà di manifestazione del pensiero. Ad avviso del legale dell’uomo, difatti, “nessuno dovrebbe essere sottoposto a processo penale per avere espresso una propria idea, per quanto non condivisibile”, senza contare che “fu proprio l’esaltazione fanatica dell’idea spirituale di nazione e razza a costituire il fulcro dell’ideologia nazi-fascista”. Occorre ricordare, difatti, che tali fattispecie delittuose devono la loro originaria introduzione al Codice penale Rocco del 1930, ispirato, in proposito, dalla finalità di sanzionare quelle condotte ritenute lesive del prestigio delle istituzioni e dei valori etici propugnati dall’ideologia del regime.
In effetti, come ha più volte sottolineato la dottrina, alcune fattispecie di reato ricomprese nella generale categoria dei delitti contro la personalità dello Stato, alla luce del mutato assetto costituzionale ed istituzionale del Paese, pongono effettivamente degli evidenti problemi di compatibilità con la garanzia della libertà sancita dall’art. 21 della Costituzione, implicando limitazioni che, peraltro, risultano difficilmente giustificabili anche alla luce del dovere di fedeltà alla Repubblica sancito dall’art. 54 della Costituzione, che richiede piuttosto, e in primo luogo, il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come quello di esprimere liberamente il proprio pensiero.
Difatti, mentre nelle condotte di istigazione ed incitamento a compiere reati contro l’ordinamento costituzionale democratico e le sue istituzioni è possibile riconoscere una pericolosità sostanziale che, per così dire, le pone al di fuori dell’ambito di una semplice manifestazione del pensiero, facendo ad esse assumere una connotazione tale da mettere “materialmente” a repentaglio i beni protetti, e tale da configurarle come strumenti in grado di suscitare azioni violente, disgregatrici o persino eversive dell’ordine costituzionale democratico, nelle condotte di vilipendio – che pure, specie nelle loro manifestazioni più grossolane, dimostrano sfiducia, disaffezione o disprezzo per le istituzioni democratiche – risulta assai più difficoltoso ravvisare un pericolo materiale e concreto per quelle istituzioni e quei valori, a fronte, invece, di una più evidente compressione della libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero, racchiusa nelle relative fattispecie incriminatrici (L. Ventura).
Peraltro, anche la Corte costituzionale, in relazione alla questione di legittimità relativa al reato di cui all’art. 266 del codice penale (Istigazione di militari a disobbedire alle leggi) ha, in passato, puntualizzato come l’istigazione «non è pura manifestazione di pensiero, ma è azione e diretto incitamento all’azione, sicché essa non risulta tutelata dall’art. 21 della Costituzione» e come, rispetto alla norma in questione, la libertà di cui all’art. 21 Cost. possa consentire di propugnare idee a favore della pace universale, della non violenza, dell’ammissibilità dell’obiezione di coscienza, che «non si concretino mai in una istigazione a disertare […], a commettere altri reati, a violare in genere i doveri imposti al militare dalle leggi» (sent. n. 16/1973).
Le giustificazioni più spesso addotte, da parte della dottrina penalistica, a favore del mantenimento di tali reati di vilipendio, anche nell’attuale contesto, si imperniano sull’argomentazione per cui non si potrebbe accordare tutela di rango costituzionale persino alle più futili manifestazioni del pensiero, non idonee a favorire il progresso delle istituzioni, nonché sull’osservazione che il prestigio delle istituzioni, che rappresenta il bene protetto da queste fattispecie, avrebbe un rilievo costituzionale tale da entrare nel bilanciamento con la libertà di manifestazione del pensiero. Criticamente (con G. Fiandaca – E. Musco) può rilevarsi, tuttavia, come tale libertà, proprio per la sua valenza politica e pratica, dovrebbe comprendere qualsiasi forma di espressione del pensiero, dalle più sgraziate, a quelle culturalmente più ponderate e meditate, non potendosi misurare la meritevolezza della tutela in modo inversamente proporzionale alla grossolanità delle idee manifestate. E peraltro, in frangenti di pesante crisi di credibilità della classe politica e di conseguente dilagante sfiducia nelle istituzioni da essa incarnate, che ingenera malcontento diffuso nell’opinione pubblica e mina quello stesso prestigio che tali norme vorrebbero tutelare, molto più difficile diventa l’individuazione di quelle manifestazioni di pensiero che esulano dall’ambito di tutela apprestato dalla disposizione costituzionale ed integrano, invece, il contenuto di un reato di vilipendio. Il prestigio non potrebbe, per così dire, essere tutelato a prescindere, anche in presenza di istituzioni mal funzionanti, che poco fanno per meritare quella tutela.
Va detto, peraltro, che la Corte costituzionale già in passato è stata chiamata a pronunciarsi in relazione a talune figure di vilipendio contemplate dal codice penale, sia in sede di giudizio di ammissibilità del referendum – proposto nel 1981 dai Radicali per l’abrogazione di oltre trenta articoli del codice penale, tra i quali quello in questione, e dichiarato inammissibile per l’eterogeneità del quesito –, sia in sede di giudizio di legittimità. In particolare, nella sentenza n. 20/1974, la Corte ha ritenuto che la previsione dei reati di vilipendio, nelle varie forme che esso può assumere, non contrastasse con la libertà di manifestazione del pensiero, consistendo la comune accezione di vilipendio «nel tenere a vile, nel ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all’entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia, in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione […] al disprezzo delle istituzioni o addirittura ad ingiustificate disobbedienze. Ciò con evidente e inaccettabile turbativa dell’ordinamento politico-sociale, quale è previsto e disciplinato dalla Costituzione vigente. Il che […] non esclude che si possa, ma con ben diverse manifestazioni di pensiero, propugnarne i mutamenti che si ritengano necessari».
Si tratta, è vero, di un’impostazione risalente, e nulla esclude che, se la questione arrivasse oggi alla Corte, essa potrebbe assumere una deliberazione del tutto differente; tuttavia, va rilevato che, in tal caso, segnerebbe una decisa contrapposizione rispetto al diritto vivente. La giurisprudenza della Corte di cassazione, in effetti, anche di recente, e coerentemente con quelli che costituiscono i suoi numerosi precedenti sul tema, in relazione al caso di un cittadino settantenne, condannato per il reato di vilipendio alla nazione italiana per essersi lasciato andare – di fronte ad una contravvenzione elevatagli dai carabinieri in conseguenza di un’infrazione al codice della strada – ad espressioni contumeliose, di tenore analogo a quelle espresse dal cittadino tunisino di cui sopra, ha osservato che «il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva» e dunque, affinché sia integrata la fattispecie delittuosa di cui all’articolo 291 del codice penale «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente», senza che siano per questo necessari «atti di ostilità, di violenza o manifestazioni di odio: basta l’offesa alla nazione, cioè un’espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l’onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall’autore» (Cass. pen., sez. I, sent. 4 luglio 2013, n. 28730).
Le imprecazioni pronunciate, in sostanza, integrerebbero il delitto previsto dalla norma sia nel profilo oggettivo, essendo sufficiente, a parere della Suprema Corte, il fatto di aver pronunciato pubblicamente espressioni di tale «grossolana brutalità» da ledere il prestigio e l’onore della comunità nazionale, sia sotto il profilo soggettivo, essendo sufficiente il dolo generico, vale a dire «la coscienza e volontà di proferire, dinanzi ai verbalizzanti e ai numerosi cittadini presenti sulla pubblica via», le espressioni di disprezzo incriminate, indipendentemente dai veri sentimenti dell’autore e dal movente specifico dell’atto.
Sennonché tale orientamento, specie in relazione al reato di vilipendio in questione, sembra eccessivamente squilibrato nel senso di porre pesanti limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero di ogni individuo, sopratutto quando essa si traduca in mere espressioni di dissenso, per quanto sostanziate in opinioni eccessive, dozzinali, volgari e culturalmente non ponderate, senza che vi sia un bene di pari rilievo costituzionale concretamente messo in pericolo ed al quale assicurare tutela, considerando illegittime quelle espressioni. Più equilibrato potrebbe risultare, come pure è stato proposto (A. Morelli), il fatto di circoscrivere i reati di vilipendio alle sole condotte che manifestino, materialmente e pubblicamente, l’attacco e il disprezzo verso quei “simboli impersonali della Repubblica” – come, ad esempio, la bandiera – che, in modo altamente evocativo, richiamano sentimenti di adesione degli individui alle istituzioni ed ai principi repubblicani, essendo peraltro possibile tutelare le persone fisiche che pro tempore rivestono determinati organi costituzionali, contro eventuali offese e contumelie ad esse rivolte, tramite il ricorso alle fattispecie di reato dei delitti contro l’onore (anche se, va detto che, di recente, con il d. lgs. n. 7/2016, alcune di queste figure, come l’ingiuria, sono state abrogate come specifiche figure penali e ricondotte, invece, all’irrogazione di una sanzione punitiva pecuniaria di natura civile, che, tra l’altro, riproduce le specifiche ipotesi aggravate penalistiche, e va ad aggiungersi, per i fatti commessi con dolo, al risarcimento del danno, ma con destinazione pubblicistica, alla Cassa delle ammende, del relativo provento).
In conclusione, la soluzione prospettata parrebbe più equilibrata, nell’ottica della tutela della fondamentale libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, quale pilastro portante di una società autenticamente democratica, contro limitazioni che, in sostanza, appaiono basate su previsioni dai profili alquanto vaghi e indeterminati, tali da poter essere ingiustamente omnicomprensivi, oltre che, per certi versi, anche obsoleti. Ma si vedrà, nel caso in cui la questione giungesse alla Corte costituzionale, quale sarà il verdetto del giudice delle leggi.
*Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Università “Magna Græcia” di Catanzaro