di Giovanni De Plato
Dopo il voto delle primarie, l’elezione a segretario di Matteo Renzi e la nomina della nuova segreteria del Pd, si può dire che la federazione di Bologna, la più rossa dell’Occidente, e quella dell’Emilia Romagna, la regione più di sinistra nel governo locale, stanno cambiato colore e avranno nuovi leader. Il rosso della sinistra dura e pragmatica lascia il posto al colore sfumato del riformismo socialdemocratico renziano. La storica leadership incontrastata degli ex comunisti e la nuova evanescente dirigenza orlandiana saranno rimpiazzate, quasi sicuramente, dai fedeli dell’ex democristiano Matteo Renzi. A Bologna, i notabili del partito e delle istituzioni avevano serrato le fila a sostegno di Orlando, prima dato a Bersani e Cuperlo, ma gli iscritti non si sono fatti incammellare e hanno votato diversamente, premiando il segretario dimissionario.
I più trasformisti del gruppo dirigente coltivavano l’illusione di aprire nella città bolognese un cantiere politico a proiezione nazionale sull’obiettivo di annullare il renzismo e di unire una sinistra pura e ulivista. Di qui le vuote idee di aggregare i frammenti oltre il Pd, unendo i resti sparsi di quel radicalismo inguaribilmente frazionista.
Con la rinnovata vittoria di Renzi, i trasformisti sono costretti a rendersi conto che la loro velleitaria proposta politica era viziata da una indecente lotta di potere (riprendiamoci la Ditta). Gli sconfitti, però, non demordono. Anzi incalzano nell’accusa: non si può dare credibilità al comando di un “uomo solo” e non si può dare spazio “alla nuova strategia del renzismo che resta distruttiva”.
I dirigenti del Pd bolognese, però, dovrebbero essere un pochino realisti e meno indecentemente manovrieri, un tantino pragmatici e meno spudoratamente legati al potere proprio, di clan e di famiglia. Intanto, se vogliono essere credibili, anche nella rincorsa alla ciambella Pisapia, dovrebbero fare i conti con il dato che le loro indicazioni di schieramento e di voto non sono state seguite dai loro compagni di partito, come avveniva in passato. I dirigenti bolognesi non riescono a capire che gli elettori di sinistra sanno che in realtà i dati negativi del renzismo costituivano già un trend prima dell’avvento del segretario toscano e che nessuno dei dirigenti ex comunisti di allora avvertì la necessità di aprire una severa riflessione critica.
Come gli iscritti sanno,quello che resta del Pd è un patrimonio ancora ricco di valori e passioni, e come tale va messo in sicurezza e non ulteriormente frazionato o dilapidato. E che Renzi è oggi, nonostante il renzismo, l’unica possibilità di salvaguardia di questo patrimonio collettivo. E’ sperabile che le elezioni politiche del 2018 possano essere una reale scadenza per misurarsi nella composita sinistra sulle politiche di sviluppo inclusivo, di riduzione delle diseguaglianze e di maggiore giustizia sociale.
Il rinnovato segretario Renzi dovrà chiarire, senza ambiguità e sotterfugi, se il Pd appartiene costituzionalmente ancora all’area della sinistra europea e se riuscirà a essere vincente nel nostro Paese costruendo un fronte unitario, pluralista e alternativo.