Se il “diritto a far vivere” è difficile da esercitare e tutelare

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di Gabriele Maestri*

L’ennesimo caso del neonato abbandonato a Settimo Torinese e morto poco dopo in ospedale è solo l’ultimo episodio, in ordine di tempo, che ci fa sentire impotenti di fronte a una vita che si spegne – innocente e incolpevole – dopo poche ore.

Unica cosa che ci è possibile, accanto al dolore (e cercando di tenere a freno gli impulsi punitivi, comprensibili ma ben poco utili) è impegnarci perché determinati fatti non si ripetano, perché le storie che incrociamo o che vengono raccontate sui giornali, in tv o sul web non si consumino in un finale visto già troppe volte.

La strada maestra, per il giurista come per chi si occupa di comunicazione, passa attraverso la conoscenza dei propri diritti, l’essere informati sugli strumenti che la legge mette a disposizione di chi si trova in situazioni difficili. Non a caso, i media hanno colto l’occasione per ricordare le norme dettate a tutela della donna che deve affrontare una gravidanza indesiderata e sceglie di non interromperla.

La tutela maggiore, per la donna, sta nel d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile): l’articolo 30 – quello sulla dichiarazione di nascita – sancisce che la dichiarazione di nascita, oltre che da uno dei genitori o da un loro procuratore speciale, può essere anche «dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata» (comma 1).

La stessa disposizione, dunque, consente alla donna di non riconoscere il figlio o la figlia e, contemporaneamente, di non figurare nei documenti relativi al parto. Altre norme tutelano in modo tangibile questo diritto all’anonimato; l’evoluzione della giurisprudenza, peraltro, negli ultimi vent’anni ha cercato di bilanciare quel diritto (o, meglio, il suo esercizio in quel momento) col diritto dei figli alla conoscenza delle loro origini. Per esempio, i giudici e la stessa Corte costituzionale – con la sentenza n. 278 del 2013 – hanno sancito, in caso di espressa richiesta del figlio o della figlia, la possibilità di verificare se la madre biologica continui a voler restare anonima anche a distanza di anni: se lei, però, non intende rivedere la scelta fatta al momento del parto, il segreto resta.

Sulla carta, ciò consente di risolvere alcuni problemi. Se una donna non vuole ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (per la Cassazione è un diritto della gravida, ma la scelta non è mai fatta a cuor leggero) senza però volersi occupare del bambino o della bambina – quale che ne sia la ragione – deve poterlo fare. Invocando la garanzia dell’articolo 30, comma 1 del d.P.R. n. 396/2000, la donna esercita il diritto a non essere madre e allo stesso tempo, se si vuole, il diritto di far vivere il nuovo nato o la nuova nata (anche senza di lei); da un altro punto di vista, è la legge a tutelare il diritto alla vita del bambino o della bambina, una volta che la madre abbia scelto di non provvedervi (senza ricorrere a soluzioni più drammatiche), aprendo la strada dell’adottabilità dopo il mancato riconoscimento.

Chi pensa che ciò sia sufficiente a risolvere ogni problema, però, è in bilico tra utopia e ingenuità. I giuristi sanno bene che non basta prevedere un diritto perché questo sia esercitato in concreto. Non tutte le donne conoscono i loro diritti, è vero; ben vengano le campagne di informazione, ma il problema non è solo questo. La questione dell’anonimato, per esempio, ha una dimensione “legale”, ma quella “sociale” è molto più delicata: è più difficile per la donna restare anonima, anche non volendo essere citata nella dichiarazione di nascita, se si presenta all’ospedale della città in cui vive e dove, magari, è nota al personale o ai degenti. Partorire in un’altra struttura, più distante, può eliminare alcuni problemi, ma non serve a presidiare l’anonimato nei mesi precedenti, nei quali è difficile celare alle persone conosciute il «segreto che si svela / quando lievita il ventre», con tutto ciò che questo comporta – per continuare a citare De André – in termini di comari e compari del paesino.

Se per difficoltà come queste i margini d’intervento sembrano molto ristretti o inesistenti, qualcosa in più si potrebbe (e si dovrebbe) fare in altre situazioni. Anche raggiungere l’ospedale più vicino, per una donna, può essere un serio problema: la distanza può essere lunga e occorre che qualcuno accompagni una persona che non è certo nelle condizioni migliori per guidare. Naturalmente la madre potrebbe scegliere di non figurare nella dichiarazione di nascita anche in caso di parto a domicilio; oggi tuttavia il parto domiciliare è necessariamente preceduto da un percorso di assistenza che mal si concilia con la situazione di una donna che sia intenzionata a restare anonima e a non riconoscere il figlio. Questi problemi varrebbero per una donna italiana ed è probabile che sarebbero amplificati per una donna straniera, magari senza una “rete familiare” che possa sostenerla, economicamente e logisticamente.

Occorre allora investire risorse non solo in comunicazione – come ho detto prima, è importante anche se non è sufficiente – ma anche in servizi (pubblici o di privato sociale) che facilitino l’accesso agli ospedali in condizioni di anonimato delle donne gravide o prossime al parto; allo stesso modo, si potrebbero sostenere e far conoscere quelle esperienze che consentano anche alla donna che non ha potuto o non ha voluto recarsi in ospedale per il parto di lasciare il proprio neonato o la propria neonata in pieno anonimato, senza compromettere il diritto alla vita di chi è appena venuto al mondo. Anche questo, in fondo, sarebbe un modo per garantire il principio di uguaglianza sostanziale dell’articolo 3, comma 2 della Costituzione, a garanzia della dignità e dei diritti della donna, come pure del bambino o della bambina, perché ne sia garantito a tutti gli effetti «il pieno sviluppo».

°Dottore  di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate all’Università di Roma “La Sapienza”

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