di Roberto Bin
L’annullamento della nomina di alcuni direttori di museo di fama internazionale ha subito risvegliato le oche del dibattito pubblico. Inammissibile strapotere dei giudici, esigenza di riportare i TAR alle loro “vere” competenze, ennesimo fallimento delle riforme renziane, smacco a Franceschini. “No a Repubblica fondata su cavilli e ricorsi”, avrebbe detto Renzi (Il fatto quotidiano): e Di Maio, cosa ne dirà Di Maio?
Innanzitutto va ricordato che i giudici amministrativi hanno la funzione di garantire i diritti e gli interessi dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Sono la garanzia della legalità, cioè del rispetto della legge votata dal Parlamento da parte di organi politico-amministrativi. Minacciare di ridurre il ruolo dei TAR equivale minacciare di ridurre le nostre difese contro il sopruso.
In secondo luogo va ricordato che le sentenze bisogna leggerle, prima di sparare commenti. Non sono una lettura piacevole, il più delle volte, perché il giudice deve motivare in punto di diritto e quindi c’è sempre un certo tasso di tecnicità che non può essere eliminato. Talvolta esagerano, è vero, ma forse non è il caso delle due sentenze incriminate: 6170/2017 e 6171/2017.
In terzo luogo i giudici amministrativi hanno il compito di valutare gli atti amministrativi (in questo caso le nomine dei direttori a seguito di una procedura concorsuale) in rapporto alla legislazione vigente. L’interpretazione – si sa – non è un’operazione esatta: non lo è in musica, non lo è in letteratura, non lo è per i testi giuridici. Ma qui sta il problema.
Perché, in quarto luogo, non si possono rimproverare i giudici per i difetti che essi rilevano nelle leggi. Se le leggi sono fatte male, di chi è la colpa? Non certo dei giudici. Peggiore è la scrittura delle leggi, maggiore è la difficoltà di interpretarle e quindi maggiore è anche la “autonomia” dei giudici. Questo lo sanno bene gli inglesi, che infatti sono molto attenti a fare leggi chiare e precise, spesso asfissianti; non lo sanno gli italiani, invece.
Le nostre leggi sono un disastro. Procedono per modifiche parziali, deroghe a questa o a quella disposizione, abrogazioni anche solo di una parola o di mezza frase, rinvii ad una norma che rinvia ad un’altra: sono un colabrodo e questo scarica il peso di ricostruirne il senso sugli interpreti, cioè sui giudici.
Le sentenze tanto vituperate è proprio questo che segnalano. Sia per quanto riguarda le “deroghe” che la riforma Franceschini ha apportato alle norme generali sull’accesso alla dirigenza, sia ancora di più per le regole sulle procedure che reggono i concorsi pubblici, la leggi sono fatte talmente male da giustificare interpretazioni anche sorprendenti; lasciano talmente tanti punti oscuri, da scaricare sulla giurisprudenza amministrativa il peso – e il potere – di riscrivere ogni particolare. Sono gli apparati tecnici dei ministeri (spesso integrati da giudici “imboscati”, per altro, che forse godono nel “criptare” i testi che elaborano) i colpevoli di tutto ciò, non certo i politici: ai quali si può però imputare la responsabilità di non correggere questi meccanismi burocratici e di sottovalutarne il peso.
Poi sull’interpretazione data dalle due sentenze del TAR si può discutere. Per esempio, appare abbastanza sorprendente che esse si facciano forte della mancata deroga esplicita al principio che alla dirigenza pubblica possano accedere solo cittadini italiani («Il carattere “internazionale” è previsto dal primo periodo solo in relazione agli “standard” che devono essere perseguiti dal MIBACT in materia di musei … ma non anche in relazione alle “procedure di selezione pubblica”, per il conferimento degli incarichi di direzione dei poli museali e degli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale»), senza porsi il problema della compatibilità di questa interpretazione con la libertà di circolazione e il divieto di discriminazione, che costituiscono principi ferrei dell’ Unione europea. E di ciò si potrà discutere in appello, davanti al Consiglio di Stato.