Il problema della pubblicazione delle intercettazioni, dopo il caso Renzi-Lillo, resta al centro del dibattito politico. Pubblichiamo due interessanti interviste apparse su Repubblica, a Vladimiro Zagrebelsky ex giudice della Corte europea dei diritti umani e a all’avvocato penalista Caterina Malavenda, apparsa su Il fatto quotidiano.
di Liana Milella – La Repubblica
ROMA. «La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie». Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
La telefonata tra i Renzi padre e figlio ha riaperto lo scontro sulle intercettazioni. Ritiene che andasse pubblicata?
«Credo che si debba fare un discorso sui principi. Il magistrato accerta reati, segue le regole del processo, e non si occupa d’altro. Il giornalista fa un mestiere completamente diverso, deve informare l’opinione pubblica su tutto ciò che è importante per la vita democratica. E per questo la Corte di Strasburgo definisce i giornalisti “cani da guardia della democrazia”. E i cani da guardia sono lì per mordere, qualche volta».
Arriviamo alla “separazione dei doveri”, il dovere del magistrato di indagare, quello del giornalista d’ informare. Pensa che uno di noi debba cercare e pubblicare tutte le notizie che trova, no?
«Il giornalista deve pubblicare le notizie che sono di interesse pubblico, non quelle che soddisfano solo la curiosità del pubblico. La distinzione tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante per il giornalista, mi si passi il gioco di parole, non ha nessuna rilevanza. La pretesa per cui sarebbero pubblicabili solo le notizie penalmente rilevanti è priva di senso. E non acquista senso ripetendola all’ infinito».
Forse, anche in stagioni politiche diverse, è utile alla politica tentare di imporla.
«Il “potere”, qualunque ne sia il colore, cerca di difendersi dai morsi che vengono da un’ informazione non condizionata. Si tratta del pendant, sul piano dell’ informazione, dell’ altra regola che si è affermata in Italia: non solo le notizie, ma anche i fatti che non sono penalmente rilevanti, è come se non esistessero. Fino al punto di pretendere una sentenza penale definitiva per prenderli in considerazione. E tanto meglio se la sentenza non arriva mai».
Ammetterà che, in questi giorni, c’ è stata una ricerca ossessiva delle fonti. Non si rischia andando avanti così una sorta di attentato alla stampa?
«La protezione delle fonti del giornalista è affermata sia dalla giurisprudenza nazionale sia da quella europea, ed è un principio sacrosanto che dimostra come vi sia tensione, e qualche volta contraddizione, tra le esigenze del segreto, e quella di informare l’ opinione pubblica. Conflitti simili sono ben noti nei regimi liberali. La libertà di stampa è fondamentale, ma può incontrare limiti, non solo quelli che riguardano la vita privata dei singoli. Anche altri interessi pubblici possono richiedere tutela».
L’ annunciata legge sulle intercettazioni ha innescato l’autocensura dei procuratori che con le circolari l’ hanno anticipata, mettendo paletti stretti alle telefonate. Già ora decidono cosa può uscire e cosa no.
«Secondo me non è così, nel senso che quelle circolari specificano le regole che sono già nel codice di procedura penale e che riguardano l’ uso o l’ eliminazione di intercettazioni ai fini del processo penale. E la selezione vien fatta da un giudice, nel contraddittorio del pubblico ministero e dei difensori. Ma adesso parlavamo del lavoro del giornalista».
Ma una volta che la toga ha etichettato come irrilevante una conversazione, che magari, come per i Renzi, è giornalisticamente interessante, va a finire che se la si pubblica si scatena il putiferio.
«È la prova che tra i doveri interni al processo e i doveri fuori dal processo, che riguardano i giornalisti, vi è una competizione che va composta tenendo conto degli interessi legittimi che sono in ballo e del valore fondamentale della libertà del giornalista, in primo luogo di cercare le notizie significative e poi di pubblicarle ».
Ma la legge che si vuole fare non comporta il bavaglio e il rischio di incriminazioni?
«Intanto si tratta di una legge delega e molto dipenderà da come il governo la eserciterà, e poi i divieti di pubblicazione esistono già…».
Liana Milella
di Gianluca Roselli- Il fatto quotidiano
“Un atto d’ indagine, anche se riservato, se è d’ interesse pubblico un giornalista ha il dovere di pubblicarlo. Poi, se ci sono contestazioni, alla fine chi decide è il giudice, che può condannare il cronista o assolverlo”. L’avvocato Caterina Malavenda, penalista ed esperta di diritto dell’informazione, mette qualche paletto riguardo alle polemiche di questi giorni sulla telefonata tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano pubblicata sul Fatto Quotidiano.
Avvocato, partiamo dall’ inizio. Cosa prevede la legge?
La legge dice che gli atti che un indagato non conosce sono riservati, quindi non possono essere pubblicati. La legge punisce chi li pubblica, per pubblicazione arbitraria di atti d’ indagine, con arresto o ammenda. Se l’ imputato paga la metà dell’ ammenda prevista (129 euro, ndr), il reato si estingue. Se invece il giornalista istiga o spinge il pubblico ufficiale a passargli certi atti, allora può essere condannato per concorso in rivelazione di segreto d’ ufficio. Qualcuno avanza l’ idea di aumentare quella pena pecuniaria. Una contravvenzione troppo alta può essere un deterrente e indurre il giornalista a non scrivere una notizia. Se la somma prevista è tale da dissuadere il giornalista a svolgere il suo lavoro, allora siamo di fronte a una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (Cedu).
Se un cronista vìola il segreto delle indagini e pubblica un atto riservato, si può invocare il diritto di cronaca?
Sì, ma occorre valutare se l’atto che il cronista pubblica, commettendo un reato, sia vero e d’ interesse pubblico. Chi commette un reato esercitando il diritto di cronaca, non è punibile, così come chi diffama non è punibile se i fatti sono veri. Un giornalista che riporta un atto giudiziario non è tenuto a verificare che i fatti siano veri, ma che l’ atto esista, che sia di interesse pubblico e a riportarlo in modo fedele. L’ interesse pubblico, però, a volte contrasta con la privacy. Le due cose vanno bilanciate. Se l’atto giudiziario riguarda la sfera intima – come le telefonate private delle persone intercettate – è evidente che la privacy prevale e quindi l’atto non può essere pubblicato. Se invece il cronista ritiene che l’ atto sia d’ interesse pubblico, questo prevale sulla riservatezza delle persone interessate e può pubblicarlo perché rientra nel diritto di cronaca. Ci può essere il caso in cui non è chiaro se prevalga la privacy o l’ interesse pubblico. Quando c’ è una contestazione in tal senso, è il giudice che decide. La legge sulla privacy prevede già che il giornalista possa pubblicare dati personali di un soggetto senza il suo consenso se quel dato è ritenuto essenziale per l’ informazione che si vuole dare al pubblico. Dopo di che, è il giudice che stabilisce se la condotta del cronista è giusta oppure no.
Poi c’ è privacy e privacy. Quella degli uomini pubblici è più bassa rispetto ai normali cittadini. La Corte europea dei diritti dell’ uomo dice che un uomo pubblico ha una privacy attenuata in rapporto all’ attività che svolge. Se un politico non paga la sua domestica, quella sua cattiva abitudine è rilevante ed è giusto che si sappia. La sua condotta personale incide nella sua vita politica, perché i cittadini, sulla base di una notizia, possono decidere di non votarlo.
Per mettersi al riparo dalla fuga di notizie dai tribunali, è sufficiente distruggere le intercettazioni dopo che le parti le hanno selezionate?
Tutte le intercettazioni vengono messe a disposizione della difesa che, dopo averle ascoltate, d’ intesa con l’ accusa, seleziona quelle rilevanti che verranno utilizzate per il processo. Tutte le altre vengono archiviate fino alla fine del processo e poi distrutte. Ma anche questo non mette al riparo dalla fuga di notizie, perché c’ è sempre qualcuno che, nei vari passaggi, ascolta le telefonate e può rivelarle all’ esterno. Poi c’ è il problema delle fonti.
Ovvero?
Cosa spinge un pubblico ufficiale a passare un atto riservato alla stampa? Preferisco credere che lo faccia perché teme che una notizia che potrebbe interessare l’ opinione pubblica rimanga segreta. Anche qui le leggi ci sono, perché la rivelazione del segreto d’ ufficio per un pubblico ufficiale è punita severamente. Il problema è che, una volta uscita la notizia, i riflettori si puntano solo sul giornalista e non su chi gliel’ ha passata.
Quindi secondo lei le leggi attuali sono sufficienti?
Se ognuno fa bene il suo mestiere, dal giornalista al giudice, sì: bastano le leggi che ci sono. Alla fine la cosa migliore è sempre lasciare la scelta alla professionalità e all’ etica del giornalista. Il quale, se sbaglia, paga in prima persona.
Gianluca Roselli