di Ilario Nasso *
«La folla grida un mantra / l’evoluzione inciampa…», canta un ritornello ormai divenuto familiare, senz’altro adattabile al refrain con cui viene ciclicamente rispolverato il tema dei rapporti fra magistratura requirente e giudicante.
In questi giorni, le Camere penali italiane hanno aderito, con il beneplacito di alcuni locali Consigli forensi, alla raccolta di firme indetta dal Comitato promotore per la separazione delle carriere in magistratura, le ragioni del quale sono peraltro dettagliate su un’apposita pagina web, al cui interno campeggia lo slogan “Due C.S.M., due carriere, una giustizia”.
L’idea di fondo – indubbiamente suggestiva – è più o meno la seguente: il pubblico ministero è un accusatore professionista, e non può condividere le sorti del giudice, imparziale amministratore della giustizia.
La tesi, tuttavia, non persuade: per ragioni costituzionali, culturali, processuali.
L’art. 102 Cost. chiarisce come «La funzione giurisdizionale [sia] esercitata da magistrati ordinari»; essi, a loro volta, appartengono ad «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», ai sensi del successivo art. 104.
L’indipendenza del magistrato – e non soltanto del giudice – non rappresenta una gratuita concessione del sistema nei confronti di chi esercita la giurisdizione, ma costituisce la logica traduzione in regola del principio della separazione dei poteri. Quest’ultima, poi, è la precondizione indispensabile al corretto funzionamento dell’apparato giudiziario, il quale solamente se libero da condizionamenti – provenienti dall’esterno, ma non soltanto – può adempiere al proprio mandato senza temere ritorsioni ovvero cedere a blandizie o ammiccamenti.
In Costituzione, la magistratura è considerata unitariamente: «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, I c., Cost.) mentre «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, II c., Cost.).
La scelta dei costituenti fu ispirata alla necessità che anche l’organo istituzionalmente chiamato a «veglia[re] sull’osservanza delle leggi, sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia», e a «promuove[re] l’azione penale» (art. 73, r. d. 12/1941) non dipendesse funzionalmente da altri poteri dello Stato, nella consapevolezza che la stessa conduzione delle attività propedeutiche all’instaurazione del giudizio possa influire sugli esiti di quest’ultimo, e vada conseguentemente affidata a un’articolazione egualmente garantita del potere giudiziario.
Ma vi è di più. Il giudice e il pubblico ministero, parimenti selezionati per concorso (art. 106, I c., Cost.) godono di un comune retroterra ideale, perché concorrono – sebbene in modi differenti – all’esercizio della giurisdizione: condividono, dunque, la medesima preparazione accademica (anche post-lauream) e – intervenuto il conferimento dell’incarico – la stessa formazione iniziale e continuativa (salvi gli approfondimenti legati alle particolarità del ruolo specificamente rivestito).
Così facendo, i magistrati sono posti al riparo da tentazioni isolazionistiche e malintese concezioni messianiche del proprio ufficio, maturando e perfezionandosi sempre immersi nella stessa cultura giurisdizionale, della tutela dei diritti fin dai prodromi di ogni processo (segnatamente penale) e non soltanto nel corso e all’esito di quest’ultimo.
Ben si comprendono, allora, le ripercussioni alle quali un’eventuale separazione delle carriere esporrebbe la dinamica del procedimento giudiziario: l’attuale art. 358 c.p.p. attribuisce al pubblico ministero il compito di «svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta a indagini», mentre l’art. 53 c.p.p. afferma come «nell’udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia».
Cosa sarebbe di questa autodeterminazione, oggi votata alla tutela del favor libertatis – anche grazie alle altre disposizioni di rito concretizzanti il principio della condanna beyond any reasonable doubt – se il pubblico ministero fosse configurato quale avvocato dell’accusa, anziché parte pubblica del processo, autorità giudiziaria (sebbene non giusdicente), tutore della legalità in senso sostanziale ma anche processuale (dunque tenuto, se corretto nell’adempimento della propria funzione, a scongiurare la condanna dell’innocente)?
Se al pubblico ministero spetta la ricognizione dei reati commessi, sarebbe esiziale crederlo – o peggio: prodigarsi per renderlo nei fatti – quale organo processuale monodirezionale, rappresentativo dell’interesse ad una condanna purché sia.
Ebbene, è ragionevole derivare, dallo scenario di una definitiva dissociazione fra giudice e pubblico ministero, il rischio di una fossilizzazione della funzione inquirente su tesi sistematicamente colpevoliste, al quale non corrisponderebbe alcun beneficio per il sistema giudiziario: è forse il caso di rammentare, infatti, come non soltanto l’ipotetica condanna ma anche il processo in sé sia afflittivo, a causa del dispendio di energie umane, economiche, organizzative ed emotive che esso inevitabilmente provoca, e la sua celebrazione debba possibilmente evitarsi – nei limiti del consentito – qualora appaia verosimilmente destinato ad un epilogo assolutorio (come indicato dall’art. 425 c.p.p.). Un avvocato dell’accusa, tuttavia, non potrebbe mai incarnare quell’amicus curiae interessato a far prevalere la verità e arrestare in tempo utile la macchina giudiziaria, a beneficio dell’indagato e dell’efficienza dell’apparato processuale: ed è difficile sostenere come la separazione delle carriere non provochi, nel pubblico ministero, una ben diversa (e preoccupante) considerazione di sé, maggiormente incline a reputare la repressione un valore piuttosto che un male necessario.
Dispiace, pertanto, che importanti organismi dell’avvocatura italiana, sensibili alle necessità di un processo equilibrato e garantistico, abbiano ritenuto d’avallare iniziative così scientificamente dubbie, quando non foriere di gravi preoccupazioni di compatibilità con il sistema costituzionale della giurisdizione.
*Magistrato ordinario in tirocinio presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dottorando di ricerca in diritto costituzionale presso l’ Università di Bologna