di Gianfranco Macrì *
Anche in Italia, dopo altri paesi, è scoppiato il caso kirpan. Sebbene da noi, passata la notizia su qualche giornale e in TV, in pochi si sono cimentati in analisi approfondite. Siamo fatti così noi italiani, bravi subito a infervorarci ma poi (come la vicenda del velo o del crocifisso) altrettanto maestri nel lasciar correre le cose, spesso affidandole ai commenti dei politici, interessati a vedere come trarne un utile esclusivamente elettorale, dunque senza preoccuparsi di informare, responsabilmente e adeguatamente, le persone – anche secondo orientamenti di parte – avendo però chiaro lo sfondo dei principi attorno a cui far ruotare le singole vicende.
Partiamo dal fatto concreto. Un indiano sikh è stato fermato per strada dalla polizia in quanto si è rifiutato di consegnare il kirpan legato alla cintola (dunque chiaramente esibito in pubblico) adducendo che il suo porto rappresentasse l’adempimento di un dovere religioso protetto dall’articolo 19 della Costituzione. Ne è seguita una condanna da parte del Tribunale di Mantova, con conseguente ammenda per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975. Da qui il ricorso e la conferma della condanna da parte della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione depositata il 15 maggio 2017 (n. 24084).
Prima domanda: può, il contenuto della disposizione di cui all’art. 19 Cost. – nella parte in cui dice che “tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma” – mettere sotto protezione anche il diritto di un soggetto a sfoggiare un arma da taglio come il pugnale kirpan ritenuto sacro nella tradizione sikh? A quanti si interessando di simboli religiosi (di rapporti tra diritto, politica e religione) è noto che il kirpan rappresenta per i sikh una componente “integrale” del loro “stare in pubblico”. Del resto, nelle nostre società multiculturali, la componente esornativa del profilo religioso di molti cittadini appartenenti a culture e tradizioni religiose diverse da quella cristiana è diventata progressivamente la chiave attraverso cui aprire (… o chiudere!) la porta del pluralismo e dare seguito a (… o bloccare!) nuove modalità di interazione tra individui, gruppi e società. Questo significa, allora, che nello spazio pubblico della democrazia liberale ci può essere un limite ad alcune modalità “pratiche” della libertà religiosa? Dipende da cosa queste producono di per sé in relazione agli altri ambiti delle libertà soggettive (A. Morelli Il pugnale dei Sikh e il grande equivoco dei “valori occidentali”, in laCostituzione.info, del 17 maggio 2017). Se, a seguito di adeguata operazione di bilanciamento, alcuni (singole persone o gruppi) rischiano di subire lesioni dei propri interessi riconosciuti come giuridicamente rilevanti, allora, sul singolo caso sarà il giudice a verificare dove (e come) andare a sottrarre quote di libertà a vantaggio dell’interesse generale. Va da sé che l’assenza di un qualsivoglia giustificato motivo finalizzato a imprimere ad una pretesa il carattere della precettività, determina il venir meno “dell’assertività dell’assunto” (cioè il collegamento diretto tra il porto del kirpan e l’art. 19 Cost.) e la violazione dell’art. 4 della legge n. 110/1975.
In una qualsiasi democrazia costituzionale, dunque, ispirata ai principi del pluralismo e della laicità – oltre che della libertà e dell’uguaglianza tra soggetti e organizzazioni (anche religiosamente ispirati) – ci sarà sempre spazio per una (teorica) corrispondenza totale (ove richiesta) tra le esigenze cultuali e la dimostrazione “pratica” dell’adesione ai dettami stabiliti dalle diverse credenze (a prescindere della loro modalità organizzativa). Questo significa che la partecipazione alle cerimonie religiose pubbliche non subirà limiti in relazione alla scelta di far abbigliare i partecipanti come meglio desiderano, anche facendo sfoggio di oggetti “altrove” ritenuti potenzialmente lesivi dell’ordine pubblico (in altri contesti la reazione dell’ordinamento ha seguito strade diverse, come ricorda G. Poggeschi, Quel pugnale vietato a Mantova e permesso a Montreal, in laCostituzione.info, del 19 maggio 2017). Indossare il kirpan sarà del tutto lecito nel corso di una celebrazione ufficiale; aver l’abitudine di tenerlo alla cintola come se non avesse alcun tipo di implicazione sulla percezione generale – immaginando di sublimarne la funzione simbolica (A. Morelli, cit.) – significa porre in essere comportamenti lesivi di altrettanti interessi costituzionali: “quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza” (R. Bin, Il problema non è il Kirpan ma la stampa, in laCostituzione.info, del 16 maggio 2017).
E’ altrove (e siamo al secondo quesito) però, che la sentenza della Cassazione merita una maggiore ponderazione. Mentre sul primo passaggio – quello relativo allo sfoggio del pugnale in pubblico “lontano” da qualsivoglia rituale e contesto sacro – il ragionamento dei giudici appare quanto mai lineare e fila liscio senza “colpo ferire”, a partire dal punto 2.3. del “considerato in diritto” si manifestano un serie di affermazioni argomentative che meritano più attenzione, in quanto le osservazioni dei giudici “infilzano” tutta una serie di tópoi la cui diversificata narrazione (per mano di diversi attori, non solo giudiziari) rischia di allargare le crepe del tavoliere multiculturale.
L’incipit è di quelli che non passano inosservati. Fa bene la Corte a scrivere che “l’integrazione non impone [per l’immigrato di diversa cultura] l’abbandono della [sua cultura] di origine”, questo perché, la norma di principio di cui all’art. 2 Cost. possiede capacità elastiche sorprendenti dirette proprio a “valorizzare il pluralismo sociale”. Ma come la mettiamo quando, a seguire, i giudici scrivono che l’immigrato che decide di abbandonare il suo paese (per un motivo qualsiasi, immagino, magari anche per questioni legate alla persecuzione religiosa) deve “preventivamente [mio il corsivo] verificare la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che regolano la civiltà giuridica della società ospitante (…) i cui valori di riferimento (…) non è tollerabile” che siano messi in discussione, magari sulla scorta di una “cosciente” azione violativa. Sarebbe bello se i processi migratori potessero essere disciplinati, dalla partenza all’arrivo, secondo modelli prestabiliti a tavolino (sulla scorta di un algoritmo affidato a esperti del settore) e in base a “rotte interculturali” dall’approdo il meno dirompente possibile (per le società ospitanti).
La realtà però è un’altra. Le “sorgenti” della nostra democrazia si arricchiscono giorno dopo giorno di immissioni culturali che vanno sapute comprese e valorizzate in senso inclusivo. Questa è la sfida politica. Scongiurare – come scrive la Corte – la “formazione di arcipelaghi culturali confliggenti”, significa proprio costruire un’idea “protettiva” di cittadinanza, che non esclude qualcuno semplicemente sulla scorte del suo “stile di vita” (G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino, 2017, pp. 79-82). Come ben sappiamo, la quasi totalità dei migranti che arrivano e si stabilizzano in Italia non ha alcuna “consapevolezza” né di quali siano i “valori di riferimento”, né in cosa consista “l’unicità del tessuto culturale e giuridico” con cui dovrà confrontarsi (quelle tra virgolette sono parole dei giudici). Pensa, piuttosto, a mettere in salvo la propria vita, per poi sperimentare, giorno dopo giorno, “la sintassi quotidiana delle relazioni intersoggettive” (M. Ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 61).
Il compito del giurista (nell’accezione più larga del termine: giudici inclusi) è quello di razionalizzare il dato sociale così come si materializza nella quotidianità, accompagnando il bisogno di certezza della legge (es. la sicurezza pubblica) con la rappresentazione progressiva di una trama dei diritti sempre “concreta”. La stessa citazione, da parte della Cassazione, sia della giurisprudenza costituzionale che di quella sovranazionale (Corte EDU), non serve solo a ribadire, quasi pleonasticamente, che “l’obbligo religioso non è assoluto e può subire legittime restrizioni”, quanto a evidenziare la necessità di favorire, attraverso l’uso culturale (educativo) dei diversi pronunciamenti, una pratica del diritto il più possibile riflessiva di quella che nei fatti è la società posta sotto il suo dominio. Per cui sarebbe buona cosa se i giudici tenessero in grande considerazione “ogni nuova sollecitazione che emerge dalla società” rimanendo però al riparo dalla tentazione di espandere il proprio “capitale istituzionale” (R. Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine. Una prospettiva “quantistica”, Franco Angeli, Milano, 2013, pp. 23, 98).
*Associato di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Salerno
Apprezzabilissimo commento. Specie nella parte in cui, caro Gianfranco, rimarchi quanto pretestuosa sia l’idea che un migrante politico (quello che, insomma, per definizione fugge dal proprio paese alla ricerca di protezione internazionale in un “altrove”) possa scegliere da sé il luogo che lo accoglierà. Vi è che i giudici di Cassazione, a voler tacer d’altro, dovrebbero avere presente come funziona il sistema Dublino.