di Antonio Ramenghi
Rispondo alla stimolante replica di Roberto Bin al mio editoriale sul tema delle intercettazioni e della loro pubblicazione.
1– Innanzi tutto va chiarito un punto che Bin solleva provocatoriamente su come un giornalista entra in possesso di una notizia. Le modalità estreme da lui elencate sono ovviamente fuori discussione. Non esiste che si rubino dossier, che si rapini, si ricatti o addirittura si ammazzi per una notizia. E’ possibile che in qualche caso la fonte abbia ricevuto soldi ma solo come rimborso delle spese sostenute (viaggi, alberghi, ecc,), ma anche questo è un caso limite e rarissimo.
2– Marco Lillo, ne sono certo, non si è messo lui, da casa sua, a intercettare il telefono di Tiziano Renzi.
Quel telefono era sotto controllo da parte della autorità giudiziaria. Quale? Quella di Napoli o quella di Roma, o entrambe? E il magistrato che ha dato il via libera alla intercettazione lo ha fatto nel rispetto delle regole o abusando di questo strumento utilissimo di investigazione? E le trascrizioni delle telefonate di Tiziano Renzi sono entrate tutte nel fascicolo giudiziario, o solo in parte, con la distruzione delle parti irrilevanti ai fini dell’inchiesta in corso?
Tutto questo il giornalista può ignorarlo o conoscerlo solo in parte. Lui riceve da fonte attendibile, probabilmente conosciuta da tempo, probabilmente interna alla indagine in corso, la trascrizione della telefonata tra Renzi padre e Renzi figlio o ha potuto ascoltarla e trascriverla.
3– La telefonata è assai interessante, destinata come già avvenuto a fare grosso rumore: per il tono perentorio del figlio nel chiedere conto degli incontri del padre con Romeo, al ristorante o al bar; l’accusa al padre di non aver detto la verità a Luca (Lotti?); l’invito a dire la verità a chi l’indomani l’avrebbe interrogato; le incertezze del padre nel rispondere; la preoccupazione del figlio che non venga coinvolta nella vicenda anche la mamma (altrimenti interrogano anche lei); il giudizio di Renzi sull’imprenditore Romeo e il collegamento fatto tra Romeo e Francesco Rutelli che ha subito fatto reagire, irritatissimo, l’ex sindaco di Roma.
Insomma dal punto di vista giornalistico la notizia c’è tutta. Quella telefonata è uno scoop.
4- Nessun contenuto nel testo pubblicato da Lillo è stato smentito da Renzi padre o da Renzi figlio. Anzi, quest’ultimo ha pure detto che quella pubblicazione gli ha giovato, dimostrando la sua totale correttezza nella vicenda (a parte forse il passaggio su Rutelli, anche questo non smentito). Tanto reale il testo della telefonata da originare la dietrologia secondo la quale Renzi avrebbe inscenato la telefonata con il babbo ben sapendo che sarebbe stata intercettata. Ma questa è una dietrologia che a mio avviso non sta in piedi, non foss’altro perché vorrebbe dire che Renzi ha premeditato e realizzato la tirata in ballo di Rutelli e non si vede perché avrebbe dovuto farlo.
5– Che deve fare un giornalista in questo caso?
A mio avviso non può che pubblicare quella intercettazione ben conscio dei rischi che corre e che ho già ricordato nel mio editoriale quando ho scritto che Lillo probabilmente verrà inquisito (ma ne ha esperienza…), forse gli verrà chiesto di svelare la fonte, cosa che, come tutti i giornalisti, non farà, rischiando il carcere. Perché una volta in possesso di una notizia di innegabile interesse pubblico, accertata come vera, scritta correttamente, il giornalista deve pubblicarla? Perché questo è semplicemente il suo mestiere, informare i lettori di fatti rilevanti. E’ questo semplicemente il suo diritto-dovere. Per di più, se non lo facesse, potrebbe poi esserci sempre qualcuno che potrebbe accusarlo di utilizzare quella notizia non pubblicata per venderla, o per ricattare le parti in causa, o per utilizzarla a beneficio di terzi, ecc. ecc. Questo soprattutto quando la notizia riguarda i palazzi del potere, sia esso politico, economico, religioso, culturale.
Questa, diciamo così, “condanna a pubblicare”, per chi ha fatto il giornalista per tanti anni e diretto giornali, ha comportato oltre a quelli penali, anche alcuni altri assai spiacevoli effetti collaterali: in qualche caso si sono rotte amicizie, in alcuni casi si è danneggiato il partito che hai votato, in altri si è arrecato dolore a persone conosciute, o ancora ci si è inimicate fonti sino a prima disponibili.
6– Quando ho scritto che il problema della diffusione delle intercettazioni non riguarda i giornalisti intendevo dire che l’argine alla diffusione delle intercettazioni non ancora inserite in atti giudiziari, va posto prima, senza per questo limitare, come si vorrebbe, uno strumento necessario di investigazione e senza limitarne i finanziamenti come si sta per fare.
Il problema riguarda chi fa le intercettazioni, chi le custodisce, chi le trascrive, chi distrugge (o non distrugge) quelle irrilevanti. Il problema è degli inquirenti che a volte sembrano avere a cuore più i risultati politici delle loro indagini di quelli giudiziari. Quando poi a complicare le cose si accendono anche competizioni tra procure tutto si complica e si intorpidisce. Ma anche qui non è un problema che possa ricadere sui giornalisti.
7– A me è sempre parsa una comoda scorciatoia quella di prendersela con i giornalisti, soprattutto quando scrivono notizie vere, di pubblico interesse. Il diritto-dovere di cronaca e il diritto-dovere di informare è stato sancito in alcune sentenze dove ha fatto premio sui reati commessi dal giornalista per documentare un fatto. Ricordo come Fabrizio Gatti dell’Espresso fu assolto dal giudice dal reato di dichiarazione di falsa identità quando si finse profugo a Lampedusa per entrare nel campo profughi e raccontare il dramma di quella gente. E fu una gran bella sentenza per chi fa questo mestiere, in controtendenza rispetto all’aria che tira sulla testa dei giornalisti. Ritengo che prenderserla con loro sia una scorciatoia pericolosa perché in ballo non ci sono, caro professor Bin, i principi di una corporazione, ma il bene sempre più prezioso e sempre più minacciato della libertà di stampa e della informazione.