di Alberto Mattei *
Sfruttamento del lavoro e tratta degli esseri umani. In Grecia, paese dell’Unione europea. Non ci sono le istituzioni dell’Unione e nemmeno la crisi economica a cui è stato esposto lo Stato ellenico nel corso di questi anni. No, siamo di fronte alla condanna della Corte europea dei diritti dell’Uomo nei confronti della Grecia, per la condizione cui sono stati sottoposti dei lavoratori migranti.
Stiamo parlando della sentenza Chowdury et autres c. Grèce che la Corte di Strasburgo ha pronunciato il 30 marzo scorso, condannando a pagare 16000 euro di multa per ciascuno dei lavoratori senza permesso provenienti del Bangladesh. Nei loro confronti, nell’aprile 2013, nei campi di fragole di Manolada, nel Peloponneso, era stato aperto il fuoco da parte di alcune guardie armate di un’azienda di produzione di fragole, per il fatto di aver reclamato – pensate un po’ – il pagamento del salario.
Le condizioni umane a cui erano sottoposti in un paese membro dell’Unione europea erano degradanti: costretti a vivere in capanne sprovviste di bagni e acqua, oltre che ridotti a lavorare dodici ore al giorno sotto il controllo di guardie armate. Più volte avevano fatto sciopero per ottenere la retribuzione, ma erano stati avvertiti che sarebbero stati pagati solo se continuavano a lavorare.
La drammatica vicenda, che ha avuto un’eco sulla stampa già al tempo dei fatti e prima ancora della pronuncia di Strasburgo (per esempio su La Repubblica), si presta ad una serie di considerazioni giuridiche che toccano significativamente il ruolo e i relativi oneri che competono agli Stati aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
Si è, infatti, nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della Convenzione riguardante la “proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”: per la Corte, non solo non va usata una nozione troppo riduttiva da parte degli Stati che aderiscono alla Convenzione, cosa che è successa nel caso greco da parte della Corte di Assise di Patrasso a cui si erano rivolti i lavoratori prima di sottoporre la questione a Strasburgo, ma va loro garantita un’effettiva azione in giudizio, punendo gli autori del crimine.
Siamo di fronte ad un primo precedente di rilievo, considerando come i giudici di Strasburgo si siano trovati finora a giudicare solo sette casi riguardanti gli abusi inflitti da attori non statali: la Corte in questa vicenda riconosce come lo sfruttamento del lavoro migrante irregolare implica il lavoro forzato, ancorché la sentenza si caratterizzi in negativo per una carenza di rigore definitorio tra i concetti di servitù, lavoro forzato e traffico umano, per esempio parendo lasciare sovrapposte, in una relazione intrinseca, questi due ultimi concetti; ma, al contempo, i giudici di Strasburgo hanno osservato il ruolo chiave che rappresenta il consenso a prestare un lavoro, aspetto che è mancato nella vicenda, dal momento che, se i lavoratori avessero smesso di lavorare, non sarebbero stati pagati (in proposito le osservazioni di Vladislava Stoyanova sul blog dell’European Journal of International Law).
Ad ogni modo, a prescindere dalla qualificazione delle circostanze per cui si è di fronte a lavoro forzato o alla tratta di esseri umani, la sentenza rappresenta un significativo monito per gli adempimenti a cui è tenuto lo Stato, al fine di adottare misure realmente protettive: infatti, pur nella consapevolezza di quello che stava accadendo, la risposta dell’autorità pubblica ellenica è stata limitata.
La vicenda greca riporta alla mente altri lavoratori, ancora più a Sud del Mondo: gli operai della miniera di platino di Marikana in Sud Africa, richiamati da Piketty nel celebre libro Il Capitale del XXI Secolo, contro i quali la polizia sudafricana aveva sparato, nell’agosto del 2012. In questa circostanza, ancora più drammatica rispetto ai fatti greci, c’erano stati trentaquattro morti, ma il conflitto si è concentrato sulla medesima questione che ha toccato i lavoratori delle fragole in Grecia: la questione salariale nella sua drammatica patologia, anche in un paese membro dell’Unione europea.
*Assegnista di Diritto del lavoro, Università di Verona