di Andrea Guazzarotti*
A quanto pare, il tanto agognato piano di investimenti della Commissione Junker non ha dato gli effetti sperati. Un dossier, apparso il 15 maggio 2017 su La Repubblica, fa un’analisi impietosa del suo fallimento. Il problema è che si trattava del pilastro del programma del Presidente Junker, sia dinanzi agli elettori (in quanto candidato dal PPE alla presidenza della Commissione), sia dinanzi al Parlamento europeo (in quanto designato dal Consiglio europeo a ottenere il voto di fiducia iniziale). In un sistema parlamentare, un simile fallimento sarebbe l’anticamera di una crisi di governo. Lo stesso Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, fallita la riforma costituzionale, ha dato le dimissioni. Ciò in perfetta coerenza con il fatto che tale riforma era stata uno dei punti qualificanti del programma di governo presentato alla fiducia delle Camere.
Possiamo immaginare un esito simile per la mancata realizzazione di un punto essenziale del programma di governo della Commissione europea? L’aver voluto presentare alle ultime elezioni europee dei candidati alla presidenza della Commissione da parte dei gruppi politici europei è stato letto come un tentativo di ‘parlamentarizzare’ la forma di governo dell’UE. Ciò al fine (benefico) di ri-politicizzare la Commissione e, così, rafforzare lo stesso Parlamento europeo nei confronti dello strapotere del Consiglio europeo. Quest’ultimo organo, che mette assieme i capi degli esecutivi nazionali, è stato il protagonista indiscusso, nel bene e nel male, delle maggiori scelte politiche compiute negli anni della crisi.
Un simile progetto di “parlamentarizzazione” della forma di governo dell’UE sconta, però, molti problemi e l’ipotesi di una crisi basata sul fallimento del famigerato Piano Junker di investimenti, per quanto possa apparire un esercizio di fantapolitica, serve a testare i limiti di quel progetto. Cosa accadrebbe, infatti, se i parlamentari europei decidessero di sfiduciare il Presidente della Commissione? Potrebbero orchestrare quello che, in Italia, viene volgarmente detto un ‘ribaltone’? Sulla carta, sì. Ed è già successo che una Commissione si sia dimessa sotto la minaccia di un voto di sfiducia da parte del Parlamento europeo (la Commissione Santer nel 1999). Quel ‘ribaltone’, però, si ebbe per motivi non politici ma etico-giuridici (lo scandalo delle malversazioni da parte di alcuni Commissari e alti funzionari della Commissione). In una forma di governo parlamentare, il parlamento deve aver la forza di minacciare (in ogni momento) la sfiducia all’esecutivo per motivi squisitamente politici e non etico-giuridici.
Il problema è che il sistema istituzionale europeo mal si concilia con l’ipotesi di un parlamento ‘sovrano’ che, dopo aver deciso di sostituire l’esecutivo in carica con un altro, imponga la propria scelta a un Capo dello Stato con funzioni meramente arbitrali. Nell’UE, le funzioni di Capo dello Stato ‘collettivo’ sono attribuite al Consiglio europeo, almeno per ciò che riguarda la formazione della Commissione. Se per caso Junker fosse, oggi, indotto a dimettersi dalla minaccia di sfiducia da parte del Parlamento europeo, quest’ultimo dovrebbe intraprendere una defatigante trattativa politica con il Consiglio europeo dagli esiti incerti. Il rischio è quello che a rimetterci di più, quanto ad autorevolezza politica, sia proprio lo stesso Parlamento europeo. Fra l’altro, i Trattati prevedono una formula che non sembra contemplare la possibilità di un vero e proprio ‘ribaltone’, posto che per la designazione del Presidente della Commissione si prevede che il Consiglio europeo debba tenere conto delle elezioni del Parlamento europeo (art. 17.7 del TUE). Come noto, alle ultime elezioni il “partito europeo” di maggioranza relativa è risultato proprio quello del Presidente della Commissione Junker. In teoria, senza la volontà di quest’ultimo “partito”, un cambio di vertice non sarebbe possibile, neppure se, per ipotesi, il gruppo dei Socialisti europei rompesse l’alleanza con il PPE e si coalizzasse con altri gruppi parlamentari.
Il modello del ribaltone, evidentemente, non è un indice di buon funzionamento di una forma di governo parlamentare. Ma è chiaro che la impraticabilità di sostituire la Commissione per motivi politici da parte del Parlamento europeo, rende quest’ultimo un organo assai più debole di un parlamento entro una forma di governo parlamentare. Del resto, nessuna forma di governo parlamentare sembra ammettere l’impossibilità di uno scioglimento anticipato della Camera elettiva, come invece è stabilito dai Trattati. Lo scioglimento anticipato rende, nella forma di governo parlamentare, il Capo dello stato arbitro delle crisi e mira, tra l’altro, a preservare la stabilità del governo contro avventate crisi ‘al buio’ da parte delle forze parlamentari.
L’assenza nei Trattati europei dello scioglimento anticipato del Parlamento europeo è dovuta all’impossibilità di avere un Capo dello Stato europeo di stampo “neutrale” e all’inconcepibilità di attribuire il potere di scioglimento al Consiglio europeo. Ma tale assenza non rende più forte il Parlamento europeo, anzi. La minaccia di scioglimento anticipato, infatti, è anche ciò che permette alle istituzioni rappresentative di meglio collegarsi alla base elettorale e all’opinione pubblica. Una “rivolta di piazza” può sfociare in una crisi di governo ma, nei casi più gravi, deve anche poter condurre a nuove elezioni. Difficilmente vedremo rivolte nelle piazze d’Europa per il fallimento del piano Junker sugli investimenti.
Il problema è che quel fallimento, anche fosse stato più grave, non avrebbe potuto innescare una crisi parlamentare gestibile con gli strumenti ordinari del parlamentarismo, semmai avrebbe potuto innescare una crisi dell’intera Unione europea. In altre parole, il sistema istituzionale europeo non è convertibile in un’autentica forma democratica di governo, in assenza di un robusto sistema di partiti europei, ed è assai opinabile che la sola prassi degli Spitzenkandidaten inaugurata con le ultime elezioni europee sia in grado da sola di indurre quel sistema di partiti.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara