Semel in anno… Può un magistrato votare alle primarie di partito?

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di Ilario Nasso *

L’art. 3, I c., lettera h), del d. lgs. 109/2006, recante norme in materia d’illeciti disciplinari dei magistrati, vieta ai medesimi «l’iscrizione o la partecipazione a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di centri politici o operativi nel settore finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato».

Trattasi di una disposizione a più fattispecie, in cui risiedono due distinte ipotesi sanzionatorie, la prima delle quali attiene ai legami fra singolo magistrato e partiti politici.  A tutela della terzietà dei titolari di funzioni giudiziarie, a questi è precluso l’inserimento all’interno di strutture di partito, di cui è presunta l’idoneità ad influenzare l’esercizio della giurisdizione, e a condizionare l’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso. La norma attua l’art. 98, III c., Cost., il quale demanda alla legge l’opzione di limitare il diritto dei magistrati (e non soltanto) d’iscriversi a partiti politici, sul presupposto dell’incompatibilità fra «servizio esclusivo della Nazione» e loro appartenenze politiche conclamate.

Per tentare di rispondere all’interrogativo qui formulato, allora, è forse opportuno verificare la persistente tenuta di quest’ultimo argomento, alla luce dell’evoluzione del sistema dei partiti.

Al momento del dibattito in Assemblea costituente, i partiti politici erano comunità più complesse dei loro omologhi del tempo presente: capillare diffusione territoriale, struttura gerarchica e forte connotazione ideologica rappresentavano peculiarità tendenzialmente riscontrabili – pur con accenti diversi – fra le principali formazioni dell’arco partitico. La scelta della Carta del ‘48, di rimettere al legislatore le valutazioni di opportunità in merito all’introduzione di sbarramenti normativi tra giurisdizione e affiliazione partitica, risultò senz’altro condivisibile: associarsi ad un partito, a ben vedere, equivaleva ad una sorta d’immedesimazione organica fra l’iscritto e l’intera compagine, tanto sul piano operativo quanto – e non secondariamente – su quello valoriale.

La situazione appare, oggi, piuttosto differente: la crisi della tradizionale concezione dei partiti, lo svuotamento dei registri degli iscritti, il progressivo smantellamento dell’articolazione territoriale, e soprattutto la comparsa sulla scena politica di formazioni affatto nuove – anche nell’impostazione del rapporto con il proprio elettorato di riferimento – autorizzano ad una rimeditazione delle conclusioni fatte proprie dai costituenti, circa il rapporto tra militanza politica e appartenenza alla magistratura.

Quanto al fenomeno delle primarie, si può notare come alcuni partiti sembrerebbero rinunziarvi senza eccessivo malcontento interno, mentre altri ne avrebbero ormai fatto un totem irrinunciabile (nella dichiarata convinzione della loro – dimostrata? – democraticità). Esse, poi, non sono tutte uguali, poiché variano per oggetto e modalità di svolgimento. Alcune formazioni vi ricorrono per la designazione dei propri dirigenti, altre ancora per la scelta dei candidati con cui presentarsi alle elezioni, politiche e amministrative. In alcuni casi, inoltre, esse risultano disciplinate da puntuali norme interne, e si tengono in sedi fisiche; in altri, invece, il luogo di svolgimento è virtuale, e non meno… virtuali sembrano i meccanismi di celebrazione (donde l’urgenza, in materia, di regole certe e universali, purtroppo di là da venire).

Poiché la legge sugli illeciti (extra)funzionali dei magistrati ne impedisce «l’iscrizione o la partecipazione a partiti politici», bisogna chiedersi se rispondere all’appello di una campagna di partito, assegnando formalmente una determinata preferenza all’interno di competizioni elettorali primarie, equivalga all’iscrizione o alla partecipazione al partito di volta in volta considerato.

Per articolare una risposta, tuttavia, occorre prendere atto dell’apparente alternatività sussistente fra le condotte incriminate dall’art. 3, I c., lettera h), del d. lgs. 109/2006: «iscrizione» e «partecipazione» sono comportamenti differenziati – a monte – dalla stessa disposizione, e il dato letterale non rievoca una “progressione criminosa”, per effetto della quale l’iscrizione funga da antecedente necessario del successivo svolgimento di concreta attività di partito.

A diritto vigente, pertanto, la norma bandisce sia il profilo formale dell’inclusione del magistrato negli elenchi degli iscritti ad un partito, sia quello sostanziale del suo effettivo impegno in favore (e all’interno) dell’organizzazione politica. Dal momento che alcune tra le formazioni solitamente più familiari con la prassi delle primarie non richiedono all’elettore la previa iscrizione – perché, se così fosse, il divieto opererebbe pacificamente – si deve valutare se il singolo atto della votazione alle primarie corrisponda ad attività politica.

Due ci sembrano le risposte proponibili.

Qualora si consideri l’esercizio dell’elettorato attivo in occasione di una competizione primaria alla stregua di un fattivo contributo all’andamento interno del partito, allora è bene che il magistrato si astenga dal prendervi parte, anche soltanto come sporadico elettore. Laddove, di contro, s’intravveda nel voto alle primarie una condotta inferiore a quella soglia minima indicativa di “vitalità politica”, nessun impedimento di legge potrà opporsi al magistrato che intenda conferire il proprio voto in sede di primarie. I termini della questione sarebbero solo in parte differenti, allorché fosse consentita al magistrato (quantomeno) l’iscrizione ad un partito politico: in questo (molto futuribile) scenario, la condotta dell’appartenente all’ordine giudiziario votante alle primarie sarebbe incensurabile soltanto se si aderisse alla seconda alternativa interpretativa, fra quelle appena evocate.

Sono, però, maturi i tempi per una riflessione di più ampio respiro: a fronte dell’evanescenza dell’idea di partito come apparato informato ad una ferrea disciplina di tipo organizzativo e ideale, continuare a vietare al magistrato l’iscrizione a formazioni politiche appare eccessivo. Ritengo che, con la sentenza 209/2009, la Corte costituzionale abbia irragionevolmente avallato la sovrapposizione di due comportamenti – quello dell’iscrizione e quello della «partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici» – che presentano, ad un adeguato esame, significativi tratti differenziali: oggigiorno, l’iscrizione è di per sé inoffensiva del valore dell’indipendenza del giudice, tant’è che molti aderenti ad un partito non svolgono in esso alcuna concreta attività, né decisionale né materiale.

Ove si consideri, peraltro, come la legge preveda apertamente l’eventualità della candidatura elettorale del magistrato – evidentemente espressiva di una spiccata vocazione politica del medesimo – e ciò possa pacificamente avvenire nonostante la persistente vigenza del divieto di sua iscrizione partitica, ben si comprende come detta preclusione non trovi attuale giustificazione. Basterebbe, allora, allineare la disciplina stabilita per i magistrati a quella apprestata – pur nell’ovvia diversità di ruoli – per i giudici della Corte costituzionale (cui l’art. 8, l. 87/1957, semplicemente inibisce «di svolgere attività inerente ad un’associazione o partito politico»), e per i membri del Consiglio superiore della magistratura (i quali debbono limitarsi, ai sensi dell’art. 12, l. 74/1990, a «non svolgere attività proprie degli iscritti ad un partito politico»), e altresì ricordare come l’imparzialità del magistrato derivi essenzialmente dalle garanzie ordinamentali di cui egli è circondato, così come dalla procedimentalizzazione delle funzioni giudiziarie, e dai correlati obblighi motivazionali.

*Magistrato ordinario in tirocinio presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dottorando di ricerca in diritto costituzionale presso l’ Università di Bologna

 

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