La Regione Veneto aveva approvato una legge (legge 12 aprile 2016, n. 12) che, modificando la propria precedente disciplina urbanistica e di tutela del paesaggio, aveva introdotto alcune norme che affidavano alla Regione stessa e ai Comuni il compito di fissare «i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzatture di interesse comune per servizi religiosi» – realizzazione da parte degli organi dei singoli culti religiosi.
Molte Regioni hanno disciplinato l’edilizia di culto, spesso sostenendola con danaro pubblico, senza incontrare censure se non quando non vengano introdotte discriminazioni tra i culti (ovviamente vietate dalla Corte costituzionale: sent. 195/1993). Anche la legge veneta passerebbe perciò il controllo dello Stato, non fosse per una disposizione specifica, l’art. 2, che prevede che nella convenzione urbanistica stipulata tra il soggetto richiedente e il comune interessato «può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto».
Già ci avevano provato alcuni sindaci leghisti, abusando del loro potere di ordinanza: ma era stato il giudice amministrativo a bloccare il loro “sconfinamento” dal tracciato costituzionale. Ora lo fa la Corte costituzionale, con la sent. 67/2017. Che c’entra l’uso della lingua con le convenzioni urbanistiche, che devono essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati? Niente, ma non è solo questo il vizio.
“A fronte dell’importanza della lingua quale «elemento di identità individuale e collettiva»” – spiega la Corte, citando se stessa – “veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana, appare evidente il vizio di una disposizione regionale, come quella impugnata, che si presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale, in difetto di un rapporto chiaro di stretta strumentalità e proporzionalità rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, ricompresi nel perimetro delle attribuzioni regionali”.