Domande e risposte sulle DAT
in attesa della legge

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di Cinzia Piciocchi

Il dibattito sulle DAT in Italia è relativamente recente e diventa oggetto di particolare attenzione ogni volta in cui le cronache si occupano di casi concreti, evidenziando le conseguenze negative della mancanza di una disciplina giuridica specifica di quest’istituto nel nostro ordinamento.  Gli effetti di questa lacuna sono invece ben presenti nell’attività quotidiana dei professionisti sanitari che operano nelle case di cura, negli ospedali e più in generale nei contesti in cui si affrontano le scelte terapeutiche alla fine della vita ed anche alle persone che si trovano ad affrontare queste tematiche, personalmente o in relazione ai propri affetti, a seguito del percorso progressivo della malattia o di un evento avverso improvviso.

Dopo anni, il Parlamento italiano sta discutendo un disegno di legge che colmi questa lacuna; può forse essere utile dare uno sguardo oltre i confini italiani, dove spesso le DAT sono un istituto giuridico consolidato da anni.

 1. Che cosa significa DAT?

DAT è l’acronimo di dichiarazioni anticipate di trattamento; altre denominazioni sono apparse, in tempi e luoghi diversi, per definire quest’istituto.  Quando nel 1969 (sottolineo: 1969, l’anno dello sbarco sulla luna) l’avvocato ed attivista per i diritti civili Louis Kutner scrisse un articolo intitolato Due Process of Euthanasia: The Living Will, A Proposal pubblicato nell’Indiana Law Journal, in cui si chiedeva perché l’ordinamento giuridico garantisse la possibilità di disporre dei propri beni materiali tramite il testamento, ma non si occupasse della possibilità di provvedere alle decisioni terapeutiche alla fine della vita, nel caso di impossibilità ad esprimersi personalmente. Kutner ipotizzava diverse definizioni: “a declaration determining the termination of life”, “testament permitting death”, “declaration for bodily autonomy”, “declaration for ending treatment”, “body trust”. Proprio l’espressione “living will” ha poi dato luogo al termine “testamento biologico” che è spesso utilizzato nel dibattitto pubblico e non solo in lingua italiana: in francese ad esempio si parla talvolta di testament de vie, specie da parte dei mezzi di informazione. Queste definizioni (living will, testamento biologico, testament de vie) non appaiono però nelle leggi più recenti che disciplinano quest’istituto, dove si trovano espressioni quali “direttive anticipate” o “dichiarazioni anticipate di volontà” (ad es. in Francia il code de la santé publique parla di directives anticipées: il Mental Capacity Act nel Regno Unito fa riferimento ad advance decisions, così come si parla di  advance healthcare directives in Iralnda, di déclaration anticipée de volonté in Belgio, di diretivas antecipadas de vontade in Portogallo e di instrucciones previas in Spagna). Anche nel panorama statunitense è generalmente preferito il termine advance health care directives.

2. A che cosa servono le DAT?

Le DAT servono per “dare voce” alla persona che non sia in grado di esprimersi personalmente (ad esempio perché in stato di incoscienza), in merito alle decisioni terapeutiche che la riguardano, in particolare sul proseguimento o la sospensione di trattamenti. Generalmente gli ordinamenti giuridici includono in tale istituto la possibilità di redigere un documento scritto e/o di indicare una persona che rappresenterà il paziente. Le denominazioni di questa figura cambiano da ordinamento ad ordinamento, ma nella sostanza si tratta di una persona incaricata di dare voce a chi non può esprimersi, o che vigili sul rispetto delle DAT (anche in questo caso le definizioni variano: si parla di  personne de confiance in francese e generalmente di proxy o attorney for health care in lingua inglese). In alcuni casi, poi, le DAT possono includere anche la manifestazione di volontà della persona in merito alle decisioni riguardanti la destinazione del proprio di corpo e/o degli organi (è il caso ad esempio della Spagna).

3. Sono richieste particolari formalità?

Le formalità variano nei diversi ordinamenti: in alcuni è richiesta la forma scritta, in altri essa è requisito previsto solo in relazione ad alcuni tipi di trattamenti (come in UK in merito ai trattamenti life-sustaining), oppure per distinguere diversi tipi di DAT (come in Austria dove si distingue tra beachtliche Patientenverfügung o verbindliche Patientenverfügung, in cui cambiano modalità e conseguenze). Alcuni ordinamenti prevedono la presenza di testimoni, mentre la forma appare generalmente più libera nel caso di revoca delle DAT, che spesso può essere orale. Talvolta è richiesta la conferma della propria volontà ad intervalli di tempo prestabiliti (ad esempio le verbindliche Patientenverfügung austriache debbono essere rinnovate o modificate dopo 5 anni o nel tempo più breve indicato dalla persona che le redige). In alcuni ordinamenti sono stati istituiti registri nazionali.

4. Le DAT sono revocabili?

Sì, in ogni momento. La revocabilità appare come regola condivisa nei diversi ordinamenti giuridici, spesso senza requisiti di forma, potendo avvenire anche oralmente.

5. Quali requisiti deve avere la persona che redige le DAT?

Sono generalmente previsti il requisito della maggiore età e la capacità della persona, al momento in cui si redigono le DAT. Alcune leggi specificano poi espressamente che la scelta deve essere “libera” (ad es. Spagna e Portogallo).

6. La disciplina delle DAT implica l’introduzione dell’eutanasia?

No, sono due cose distinte. In alcuni ordinamenti le DAT s’intersecano con il tema dell’eutanasia, intesa come assistenza al suicidio o omicidio del consenziente, ma solo dove essa sia già consentita (è il caso ad esempio del Belgio cfr. la Loi relative à l’euthanasie del 28 maggio 2002, art. 4 ss.; si può leggere in http://www.health.belgium.be). Questo non è, al momento, il caso dell’Italia, dove l’eutanasia “attiva” è vietata; l’intreccio tra le due tematiche (DAT ed eutanasia così intesa) rappresenta un’ipotesi minoritaria nel panorama giuridico comparato.

7. Sussistono circostanze in cui le DAT non sono applicate?

Sì, le leggi prevedono casi in cui le DAT non saranno applicate. Le motivazioni appaiono diverse, tuttavia si tratta generalmente di circostanze in cui la volontà espressa dalla persona non appare più rappresentata dalla situazione attuale. Le leggi fanno riferimento a mutamenti nei trattamenti (ad esempio il trattamento oggetto delle direttive anticipate è diverso rispetto al trattamento in merito al quale bisogna prendere una decisione) o nelle circostanze (ad esempio sono assenti circostanze che le DAT presupponevano, o intervengono nuove circostanze che la persona non aveva previsto al momento della redazione delle DAT e che avrebbero influito sulle sue decisioni, così ad esempio nel Regno Unito ed in Spagna dove si fa riferimento al mutamento dei presupposti di fatto assunti e previsti dalla persona al momento della redazione delle DAT), oppure a cambiamenti dovuti al progresso medico intervenuto nell’intervallo di tempo intercorso tra la manifestazione di volontà raccolta nelle DAT ed il verificarsi dell’evento avverso (Portogallo). Sono considerate rilevanti anche l’insorgere di circostanze non note (tipicamente lo stato di gravidanza della donna, cfr. ad es. l’Irlanda) e la contrarietà alla lex artis, quindi con riferimento alla pratica medica (Spagna).

8. …e i “tassi di successo”?

Reperire i dati non è semplice, spesso si incontrano dati che oscillano tra il 20 ed il 30%, ma le percentuali di utilizzo delle DAT variano in relazione ai contesti, essendo maggiori ad esempio nel caso di ricovero presso istituti di cura. Similmente, altri fattori possono incidere sul tasso di ricorso alle DAT: tipicamente le condizioni cliniche della persona, poiché si riscontra un impiego più ampio nel caso di persone con patologia già in atto, rispetto alle persone sane che decidano di redigere questi documenti in vista di un accadimento non certo, ma solo eventuale (cfr. ad es. le indagini condotte da F. Nauck et al., To what extent are the wishes of a signatory reflected in their advance directive: a qualitative analysis, in BMC Med Ethics, 2014, 15: 52; U. Schüklenk et al., End-of-Life Decision-Making in Canada: The Report by the Royal Society of Canada Expert Panel on End-of-Life Decision-Making, in  Bioethics, 2011 Nov, 25: 1-4).

Sia però consentita a tale proposito una considerazione personale. Non ritengo che le percentuali di effettivo ricorso alle DAT debbano incidere sulle valutazioni in merito alla necessità e neppure all’opportunità di approvare una disciplina specifica di quest’istituto. Il legislatore non è un commerciante e le DAT non sono un prodotto accantonato in un magazzino da smerciare; il legislatore risponde alle necessità dei cittadini tutelandone diritti e libertà. Se anche poche persone decideranno di redigere le DAT e quest’istituto potrà evitare le lunghe battaglie giudiziarie alle quali abbiamo assistito negli scorsi anni per l’accertamento della volontà delle persone in merito alla fine della loro vita, o l’incertezza dei professionisti della salute e lo smarrimento delle persone legate da vincoli di affetto a pazienti in relazione ai quali si trovano a dover prendere decisioni complesse, in una sensazione di grande solitudine, allora le percentuali di ricorso alle DAT non contano.

Con l’introduzione delle DAT si può poi ipotizzare un mutamento culturale, per cui alcuni termini come “morte” o “fine vita” escono dal cassetto delle parole difficili da pronunciare e sulle quali non ci si confronta, favorendo invece un dibattito sereno. In particolare, la possibilità stessa di redigere le DAT può favorire una riflessione più ampia sulla fine della vita, promuovendo il principio del consenso informato anche in quest’ambito che risente spesso delle difficoltà legate alla comunicazione di notizie inerenti le patologie a prognosi infausta. Se così fosse, il beneficio che ne deriva è per tutti, anche per chi non sentirà alcuna esigenza di redigere questo documento. Anche da questo punto di vista, le percentuali veramente non contano.

 

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