di Giuseppe Tropea
Il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, contenente “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” è un provvedimento complesso, che merita attenzione, e che non può essere liquidato con generiche ed unilaterali prese di posizione, spesso condizionate dalle lenti deformanti dell’ideologia.
Sgombrerei subìto il campo da una polemica che mi pare sterile, e che sconta una scarsa informazione sul tema: è un provvedimento di destra? Il Ministro ha risposto sulle pagine di Repubblica, rivendicando di fatto alla sinistra il tema della sicurezza delle città, vista nel senso di “bene comune” che rifugge competenze esclusive e necessita di cogestione su più fronti istituzionali.
Il Ministro non ha torto su questo punto.
Esiste certamente, “a sinistra”, un risalente dibattito: penso soprattutto al realismo criminologico anglosassone, che condivide con le impostazioni “situazionali” e di “tolleranza zero” l’idea di prendere sul serio il crimine e la vittima, seppure deviando nelle ricette di intervento, sulla base di un programma socialdemocratico volto ad implementare piani locali di controllo della criminalità fondati su un approccio multi-agency e sul principio della responsabilità democratica.
Ben prima dei provvedimenti del legislatore statale, quello più recente che qui si considera e quelli del biennio 2008/2010 (in cui un partito politico di sedicente ispirazione federalista ha, in questo settore, messo in campo politiche pubbliche di stampo fortemente centralista), si sono registrati interventi normativi su altri fronti. Penso soprattutto alla legislazione regionale in tema di c.d. “servizio integrato di sicurezza”, che vede, non a caso, l’Emilia-Romagna in prima linea (con una legge del 1999, dunque prima della riforma costituzionale del 2001), ed all’utilizzo sempre più intenso di piani o protocolli per il controllo del territorio che hanno visto, e vedono, il coinvolgimento di Regioni ed enti locali, nonché di privati. Da queste esperienze, peraltro, si evince una nozione “ampia” di sicurezza urbana, dove sovente il momento repressivo non vive isolatamente, ma viene posposto a quello preventivo, di lotta al disagio sociale.
La “sicurezza urbana”, così, si pone in discontinuità rispetto ai tradizionali concetti di “ordine e sicurezza pubblica” (di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, lett. h, Cost.). L’aggettivo “urbana” designa il luogo dove maggiormente si percepiscono i problemi derivanti dall’insicurezza “globale”, da quella socio-economica, legata soprattutto alla crisi del 2007, a quella c.d. “strategica”, oggi rappresentata soprattutto dal fondamentalismo islamico.
In questa tematica l’assetto delle competenze e delle fonti appare centrale, essendo avvinto a doppio nodo alle politiche pubbliche in materia, che si muovono lungo l’asse della difficile conciliazione tra sicurezza, politiche “situazionali” e di c.d. “tolleranza zero”, e politiche sociali di prevenzione ed inclusione. Il tema di fondo è rappresentato dal tramonto del c.d. welfarismo criminologico come specchio della più ampia crisi, o comunque ristrutturazione, del Welfare State. In tale contesto le politiche della sicurezza possono prendere il posto delle politiche sociali.
Il rischio, quindi, è rappresentato da un determinato modo di intendere in questo delicatissimo settore l’intreccio fra sussidiarietà verticale e quella orizzontale: la legislazione statale degli ultimi anni ha finito per attirare, in una forma di sussidiarietà “ascendente”, l’individuazione delle policies, rendendo tutto come forma di “sicurezza pubblica minore”, sovente a danno di diversi modelli discendenti dalla legislazione regionale e da buone pratiche, specie a livello locale, caratterizzati da educazione alla convivenza, rispetto della legalità, integrazione e inclusione sociale, rigenerazione urbana e “rammendo” delle periferie (per dirla con Renzo Piano).
In base all’art. 117, comma 2, lett. h Cost., introdotto dalla riforma del Titolo V del 2001, l’ordine pubblico e la sicurezza, esclusa la polizia amministrativa locale, spettano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato; inoltre, il novellato art. 118, comma 3, affida alla legge statale forme di coordinamento fra Stato e Regioni, fra l’altro, nelle materie di cui al suddetto art. 117, comma 2, lett. h (disposizione sinora colpevolmente inattuata dal Parlamento).
La giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, privilegiando sovente il criterio della c.d. “prevalenza”, specie con riguardo a settori connessi alla prevenzione (in via amministrativa) di comportamenti penalmente rilevanti, di fatto ha portato ad un’estensione dei casi di ritenuta sussistenza della competenza esclusiva statale, spesso a danno proprio delle competenze regionali.
Tale linea interpretativa risulta sostanzialmente confermata dalla sentenza n. 196/2009 in tema di sicurezza urbana. Secondo la Corte nel nuovo art. 54 t.u.e.l. i poteri esercitabili dai sindaci possono essere esclusivamente finalizzati all’attività di prevenzione e repressione dei reati, e non riguardano lo svolgimento di funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome. La Corte sembra optare a favore della tesi che vede la sicurezza urbana come parte dell’ordine pubblico, sicurezza pubblica “minore”, scartando invece la diversa ricostruzione che configura la sicurezza urbana come intreccio e punto di coordinamento fra competenza diverse, statali e non, volto non solo, in senso stretto (c.d. security), alla prevenzione e repressione dei reati, ma anche, in senso ampio (safety), alla promozione e coesione sociale. Tutto ciò finisce per determinare una potenziale indebita sottrazione di competenze regionali esclusive o concorrenti, rispetto a materie che ben potrebbero riguardare la sicurezza urbana (es. formazione professionale, tutela e sicurezza sul lavoro, servizi sociali, attività culturali e istruzione, attività produttive, urbanistica, edilizia).
In direzione almeno parzialmente diversa si muove la sentenza n. 226/2010, con riferimento al potere di stabilire le condizioni alle quali i comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio. La sentenza si pone in parziale continuità con la precedente n. 196/2009, per la parte relativa al fine di segnalazione di eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana. Altro discorso viene fatto per il riferimento alle “situazioni di disagio sociale”, che viene considerato elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio della disciplina, e ricondotto alla sicurezza sociale, rientrante nella competenza regionale residuale.
Trattasi di sentenza che merita un giudizio favorevole, in quanto trova nella nozione di “disagio sociale” un argine rispetto a una tendenza, che prima che giuridica è culturale: una “supplenza” della sicurezza pubblica rispetto alla sicurezza sociale, con una sorta di ritorno alle politiche pubbliche di trattamento della povertà e del disagio sociale di fine ‘800.
Detto ciò, le politiche pubbliche degli ultimi due anni mi pare rappresentino un cambiamento di rotta, seppure parziale, rispetto a quelle del biennio 2008/2010.
Penso, prima di tutto, al D.P.C.M. 25 maggio 2016, attuativo dell’art. 1, comma 974 ss., della legge n. 208/2015, che istituisce il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluoghi di provincia, finalizzato alla realizzazione di una serie di interventi, volti, fra l’altro, alla rigenerazione delle aree urbane degradate attraverso la promozione di progetti di miglioramento della qualità del decoro urbano, di manutenzione, riuso e rifunzionalizzazione delle aree pubbliche e delle strutture edilizie esistenti, rivolti all’accrescimento della sicurezza territoriale e della capacità di resilienza urbana, etc.
A me pare che secondo tali coordinate generali vada letto anche il Capo I del d.l. n. 14/2017 (“Collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana”), la cui Sezione I (“Sicurezza integrata”), merita un giudizio favorevole. Non è un caso che esso venga adottato (finalmente) “anche in attuazione dell’art. 118, terzo comma, della Costituzione” (art. 1).
Ferma restando la definizione delle linee generali per la promozione della sicurezza integrata, affidata alla proposta del Ministro dell’interno, ma soggetta all’accordo in sede di Conferenza unificata (art. 2), viene generalizzata la possibilità di accordi tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, prendendosi atto di un fenomeno ampiamente diffuso nella prassi oltre che normato in varie leggi finanziarie degli ultimi anni, e si richiama un altro importante aspetto, anch’esso diffuso (nella legislazione regionale sopra richiamata), ma spesso trascurato, relativo al sostegno regionale nei confronti degli enti locali per interventi di promozione della sicurezza integrata (art. 3, comma 2).
La sezione II del d.l. n. 14/2017 è espressamente dedicata alla “sicurezza urbana”. Anche in questo caso si dà ampio spazio ai patti per la sicurezza urbana, sottoscritti tra il prefetto e il sindaco, volti a perseguire obiettivi di prevenzione di fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, promozione e rispetto della legalità, nonché del decoro urbano (art. 5).
L’art. 4 reca una definizione di sicurezza urbana che rispecchia quella precedentemente contenuta nel d.m. 5 agosto 2008. Di fatto, quindi, costituisce un’opportuna “legificazione” di quel discusso decreto di natura non regolamentare (ebbene sì, ancora la “fuga dal regolamento”!) che era stato uno dei principali bersagli della sentenza n. 115/2011 della Corte costituzionale.
Quest’ultima, come è noto, richiama il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto: “Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”.
Non si tratta, dunque, di un problema di deroghe alle norme vigenti, col limite dei principi generali. La questione si colloca più a monte, e riguarda i presupposti dell’esercizio del potere di ordinanza. Essendo esercitabile il potere anche al di fuori di fatti eccezionali e imprevedibili a carattere transeunte, la modifica all’art. 54 t.u.e.l. appare incostituzionale là dove consente che eventi “normali” possano costituire presupposti per la sua applicazione.
I giudici accostano al principio di legalità sostanziale la riserva di legge relativa di cui all’art. 23 Cost. Né all’uopo può essere richiamato il d.m. 5 agosto 2008, che ha indicato cosa debba intendersi ai sensi dell’art. 54 t.u.e.l. per incolumità pubblica o per sicurezza urbana. Infatti: “la natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il decreto sopra citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra autorità centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di un atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini”.
Viene sanzionata pure la violazione dell’altra riserva di legge relativa, formulata dall’art. 97 Cost. allo scopo di assicurare l’imparzialità dell’amministrazione, e ciò sempre a garanzia del cittadino, che trova protezione, rispetto a possibili discriminazioni, proprio nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. Strettamente collegato alla rilevanza del principio di imparzialità è, quindi, il vulnus al principio di eguaglianza di fronte alla legge di cui all’art. 3 Cost., là dove i medesimi comportamenti possono essere ritenuti in vario modo leciti o illeciti, a seconda delle numerose parti del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci.
Nel dichiarare incostituzionale quell’ “anche” anteposto alle parole “contingibile e urgente”, la Corte, peraltro, ha riportato al centro della scena il potere regolamentare dei consigli comunali; così, mi pare, possa leggersi il richiamo, contenuto all’art. 8, comma 2, d.l. n. 14/2017, proprio ai regolamenti comunali, che ritrovano il giusto spazio che ad essi spetta, nelle materie attinenti al degrado del territorio, al pregiudizio al decoro ed alla vivibilità urbana.
E veniamo così alle ombre del decreto: che ci sono, è indubbio, anche se appare opportuno distinguere.
Sono gli artt. 8, 9, 10 e 11 le disposizioni che stanno facendo più discutere. Cerchiamo di comprendere meglio perché, anche alla luce di quanto sin qui osservato.
Si consideri, prima di tutto, con specifico riferimento al potere di ordinanza in tema di sicurezza urbana, che il legislatore opportunamente dettaglia i casi che legittimano i provvedimenti di cui all’art. 54 t.u.e.l., modificando il comma 4-bis che, in precedenza, rinviava a un decreto del ministro la disciplina dell’ambito di applicazione di tale potere, secondo una modalità – come si è detto – giudicata illegittima da parte della Consulta.
Quanto all’ampliamento del potere di ordinanza del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, che ora potrà emettere ordinanze ai sensi dell’art. 50 t.u.e.l. anche “in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità o del riposo dei residenti”, a me pare che tale potere rischi di rivelarsi, in pratica, un doppione del potere d’ordinanza del sindaco in tema di sicurezza urbana ex art. 54 t.u.e.l., una volta caduta, grazie alla scure della Consulta, la possibilità che queste ultime vengano adottate anche al di fuori dei casi della contingibilità e dell’urgenza.
Certo, ma questo è un discorso più ampio, che accomuna il potere ex art. 50 ed ex art. 54, una volta preso atto che i presupposti che legittimano i poteri sindacali sono tendenzialmente sovrapponibili, c’è da osservare come difficilmente in tali settori l’adozione di questo tipo di ordinanze rispetti, per sua natura, i requisiti della contingibilità e dell’urgenza, come testimonia la prassi ante 2017 e come si evince dai primi provvedimenti adottati (v. l’ordinanza n. 43/2017 del sindaco di Seregno che vieta il “bivacco in tutto il centro abitato” e di “consumare bevande alcoliche, al di fuori delle aree pertinenziali dei pubblici esercizi regolarmente autorizzati”).
Concordo con l’analisi di Alessandro Morelli, laddove questi osserva che il problema della genericità delle formule impiegate (“decoro” e “vivibilità urbana”), che si pone sul piano della previa identificabilità delle situazioni di fatto nelle quali è possibile esercitare il potere in questione (tornandosi, così, alle criticità messe in luce dalla sentenza n. 115/2011), può essere ridimensionato proprio attraverso il richiamo al vincolo dell’indifferibilità e dell’urgenza. Tuttavia, richiamerei quanto appena detto circa la intrinseca difficoltà di configurare la contingibilità e l’urgenza in questo tipo di provvedimenti (a differenza dei casi di “emergenze sanitarie e di igiene pubblica”). Peraltro, pur seguendo questa lettura, il problema rimane fermo con riguardo al potere di ordinanza “non contingibile e urgente”, di cui al nuovo art. 50, comma 7 t.u.e.l. (sempre introdotto dall’art. 8 d.l. n. 14/2017), al fine di “assicurare le esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti in determinate aree della città interessate da afflusso di persone di particolare rilevanza, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi” e col quale è possibile disporre, per un periodo non superiore a sessanta giorni, “limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”. Anche in questo caso si tratta di potere tendenzialmente sovrapponibile a quello, contingibile e urgente, di cui all’art. 54, comma 6, t.u.e.l., sicché sembra che in questo modo il legislatore abbia voluto aggirare, almeno in parte (l’ordinanza deve avere limitazioni di efficacia nel tempo e nello spazio), quella giurisprudenza amministrativa che negli ultimi anni ha annullato tali provvedimenti proprio per mancanza dei requisiti della contingibilità e dell’urgenza.
Resta, inoltre, il problema evidenziato da Stefania Parisi (sempre nelle pagine di questa Rivista), legato alle potenziali discriminazioni che potranno verificarsi tra comune e comune, e fra varie parti del territorio nazionale, a causa dell’alto tasso di discrezionalità che hanno sul punto i sindaci. Anch’esso, lo si è detto, ha costituito un profilo sul quale la Consulta ha avuto modo di esprimersi nella più volte richiamata sentenza n. 115/2011.
Altra questione è rappresentata dal fatto che le ordinanze ex art. 50, essendo adottate dal sindaco quale rappresentante delle comunità locali, e non come ufficiale del Governo, non saranno soggette al potere di controllo, e di eventuale annullamento ufficioso, da parte dei prefetti, che spesso in passato si è rivelato prezioso (v. Bin) per scongiurare gravi violazioni dei diritti fondamentali, si pensi alle ordinanze anti-burka. Resta, fortunatamente, il baluardo del giudice amministrativo.
In quest’ottica, infine, va guardato l’inedito potere ribattezzato “daspo” urbano. Che di vero e proprio “daspo” si tratti, lo conferma il rinvio alla legge n. 401/1989, contenuto all’art. 10, comma 3. Certo, fa una certa impressione che poteri di tal fatta, che impattano in modo rilevante sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), siano oggi rimessi (anche) all’autorità comunale (il questore lo mantiene, in caso di reiterazione delle condotte vietate dall’art. 9, ai sensi dell’art. 10, comma 2), che evidentemente opererà in tal caso come ufficiale del Governo (anche se ciò non è espressamente previsto).
A proposito di ciò che non è previsto, ridimensionerei la preoccupazione circa la non prescrizione dell’obbligo di motivazione in capo al sindaco (a differenza del potere del questore, per il quale tale obbligo è invece espressamente contemplato). E’ vero che, se si guarda alla prassi amministrativa in materia di “daspo” sportivo, si evidenzia una diffusa e preoccupante superficialità da parte delle autorità competenti nell’adozione delle misure antiviolenza, con la conseguenza che la valutazione rischia di tradursi in mero arbitrio se, come spesso si è verificato, l’applicazione del divieto segue automaticamente l’episodio di violenza in assenza dei presupposti e delle necessarie verifiche prescritte dalla legge. E tuttavia, se si esamina la giurisprudenza amministrativa sul punto, si nota come essa – anche alla luce delle indicazioni derivanti dalla sentenza n. 193/1996 della Corte costituzionale (che richiede una valutazione che non attinga a dati formali, bensì alla concreta ed attuale pericolosità del soggetto, che è anche il presupposto di giustificazione ed idoneità della misura stessa in relazione allo scopo che si intende perseguire) – ha sovente annullato tali provvedimenti per carenza di specifica motivazione in ordine all’esistenza dei presupposti applicativi, oggettivi e soggettivi richiesti dalla legge, a sua volta spesso rivelatrice di carenza e/o insufficienza dell’istruttoria procedimentale. Certo, anche qui ha ragione Alessandro Morelli laddove segnala che anche per il “daspo” urbano si ripropongono i problemi tradizionali in tema di misure di prevenzione, che prescindono dall’accertamento giudiziale di delitti e si basano su meri sospetti. Ma questo è un tema più ampio e di sistema, legato alle crescenti intersezioni tra diritto penale ed amministrativo (si pensi al ruolo dell’Anac nell’anticorruzione, o alle c.d. informative antimafia), e non può essere affrontato in questa sede.
Mi pare, infine, formulato in modo poco chiaro l’art. 11 che, nel conferire al prefetto il potere di determinare le modalità esecutive dei provvedimenti dell’A.G. concernenti occupazioni arbitrarie di immobili, stabilisce al comma 3 che l’eventuale annullamento del provvedimento prefettizio può dar luogo, salvi i casi di dolo o colpa grave (discutibile limitazione di responsabilità della p.a., che potrebbe essere soggetta, sul punto, a dichiarazione di incostituzionalità per violazione degli artt. 3, 24, 28 e 113 Cost.), esclusivamente al risarcimento in forma specifica, consistente nell’obbligo per la p.a. di disporre gli interventi necessari ad assicurare la cessazione della situazione di occupazione arbitraria dell’immobile. Non si comprende bene, in questo caso, a cosa serva l’accoglimento del ricorso, seppure giudicato fondato: si tratterà, forse, in sede di esecuzione del medesimo, di effettuare (comunque) lo sgombero disposto dall’A.G., ma seguendo un rigido criterio di proporzionalità nella ponderazione degli interessi. In ogni caso si ha qui una forte limitazione dei diritti del privato sia sul piano della tutela “reale” che sul piano della tutela per equivalente.
Per concludere, ci si è incamminati su una strada sicuramente meno impervia di quella del pacchetto sicurezza di quasi un decennio fa, soprattutto sul fronte della visione della sicurezza urbana come fascio di politiche pubbliche e interventi necessariamente integrati, anche se persistono talune criticità legate ai poteri di ordinanza e al “daspo” urbano, che nei prossimi mesi verranno molto probabilmente all’attenzione del giudice amministrativo, al quale, al solito, è affidato il delicato compito di conciliare i molteplici interessi, potenzialmente in conflitto, che ruotano attorno alla sicurezza urbana.
Ma è giocoforza che sia così, nella complessità e liquidità della società contemporanea: in tale contesto è normale esperienza la difficoltà di avanzamento della politica (al netto delle patologie che inficiano il nostro sistema istituzionale) e l’opera insostituibile della giurisprudenza.