di Roberto Bin
Lo stesso giorno della sentenza Achbita, qui commentata, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dovuto occuparsi una seconda volta del velo islamico e della discriminazione che ne può derivare sul posto di lavoro. Nella sent. Bougnaoui (C-188/15) la Corte affronta il caso di una donna islamica licenziata perché si rifiutava di togliere il velo islamico quando svolgeva la propria attività lavorativa presso clienti dell’impresa di cui era dipendente.
Era stata assunta come ingegnere progettista e anche al momento dell’assunzione indossava il velo: il problema sorge quando un cliente dell’impresa, presso cui l’ingegnere era stata inviata, si lamenta che il velo “aveva infastidito alcuni suoi collaboratori”. Che questo potesse accadere era un’ipotesi prevista al momento dell’assunzione, per cui l’impresa aveva avvertito la nuova assunta che avrebbe dovuto rinunciare al velo in certe circostanza, quando i clienti lo avessero richiesto.
La Corte di giustizia ritiene che il licenziamento sia discriminatorio, perché “la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione”. Tutta l’argomentazione della Corte ruota attorno a questo interrogativo: la “neutralità” imposta al dipendente e al suo abbigliamento costituisce un “requisito essenziale e determinante” per lo svolgimento del lavoro? Mentre nel caso Achbita la risposta era affermativa, nel caso Bougnaoui è negativa.
La differenza sta in questo elemento determinante: che la signora Achbita era una receptionist che per il suo ruolo costituiva il contatto visivo e di primo approccio del cliente alla impresa di servizi, di cui concorreva perciò a formare l’immagine esterna; mentre l’ingegnere Bougnaoui era una tecnica progettista inviata a svolgere la sua attività presso un cliente che si era rivolto all’impresa per ricevere le prestazioni che tale impresa era capace di erogare, rispetto alle quali che il tecnico inviato indossi o meno il velo islamico non può incidere in alcun modo, né sull’immagine della ditta né sulla qualità del servizio erogato dalla sua dipendente. Il licenziamento quindi è conseguenza soltanto di atteggiamenti discriminatori del cliente, anzi di alcuni suoi collaboratori.
Può essere utile ricordare un lontano precedente davanti alla Corte costituzionale. Si trattava della dipendente di una ditta di vigilanza licenziata perché i clienti non gradivano che fosse una donna a garantire i servizi di guardia giurata. La Corte allora affermò (sent. 17/1987) un principio semplice e chiaro: il divieto di discriminazione opera sul piano generale, e quindi anche nei rapporti contrattuali tra privati. Ma non c’è dubbio che, rispetto alla discriminazione in base al sesso, quelle basate sulla religione e i suoi simboli sembrano trovare maggiori margini di giustificazione nella pretesa di “neutralità” che l’attività lavorativa del dipendente deve preservare. Sono margini esigui, però, che in fondo si ancorano esclusivamente al sentimento, e ai pregiudizi, del cliente.
Perché il costo di questi pregiudizi debba assumerselo il lavoratore e non il datore di lavoro è una domanda legittima, a cui forse si dovrebbe rispondere prendendo in attenta considerazione le condizioni di fatto e le circostanze concrete. Che è esattamente quello che la Corte di giustizia invita i giudici nazionali a fare.