di Roberto Bin
La questione dei corsi universitari impartiti in lingua straniera è arrivata alla Corte costituzionale perché il Politecnico di Milano aveva attivato, a partire dall’anno 2014, dei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese, affiancando però un piano per la formazione dei docenti e per il sostegno agli studenti. Molta polemica aveva suscitato questa decisione, assunta sotto l’egida della “internazionalizzazione” dell’Università esaltata dalla riforma “Gelmini”. Questa prevedeva il “rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”.
Alcuni docenti del Politecnico avevano impugnato la delibera davanti al giudice amministrativo, che solleva davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della disposizione legge “Gelmini” sopra riportata. Essa sarebbe in contrasto con diverse norme costituzionali, in particolare con il riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale (art. 6 Cost.), e con la libertà di insegnamento (art. 33 Cost.).
La decisione della Corte ha una struttura complessa: dichiara la questione infondata, per cui la legge è fatta salva; ma aggiunge che essa non è incostituzionale se interpretata correttamente. L’interpretazione corretta fa perno sull’“anche” contenuto nella legge. La Corte costituzionale ribadisce la “primazia” dell’italiano come lingua ufficiale e riconosce il pericolo che il processo di globalizzazione insidi il ruolo e la funzione della lingua italiana, pericolo che va combattuto difendendo l’uso della nostra lingua, specie nella scuola e nell’università: per questo motivo riterrebbe illegittima la legge “Gelmini” se fosse interpretata “nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli intieri corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano”, perché l’esclusività della lingua straniera, infatti, “estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di intieri rami del sapere”. Il punto è chiaro: “Le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare”. E in più ci sarebbe la lesione anche della libertà di insegnamento, perché si verrebbe “a incidere significativamente sulle modalità con cui il docente è tenuto a svolgere la propria attività, sottraendogli la scelta sul come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera”.
Tuttavia, spiega la Corte, la disposizione della legge “Gelmini” può essere interpretata in modo conforme alla Costituzione: la legge infatti non consente – almeno esplicitamente – che interi corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, mentre non sarebbe contrario alla Costituzione che gli atenei affianchino ai corsi universitari in lingua italiana alcuni corsi in lingua straniera. “È ragionevole – precisa la Corte – che, in considerazione delle peculiarità e delle specificità dei singoli insegnamenti, le università possano, nell’ambito della propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera”, purché però gli atenei non esagerino e garantiscano comunque “una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento”.
La sentenza forse non brilla per la linearità della sua argomentazione, che cerca di stare in bilico tra la difesa della centralità della lingua italiana e l’esigenza di aprire le università all’internazionalizzazione. Forse se si fosse dovuto scriverla in inglese, alla fine apparirebbe più chiara!
Sarebbe interessante capire se, nel decidere, la Corte si sia posta il problema del destino degli ormai numerosi corsi di laurea interamente impartiti in lingua non italiana (non si tratta del solo Politecnico). E che dire dei titoli già attribuiti in questi corsi di laurea? Per fortuna che è “solo” un’interpretativa di rigetto …
La Corte pecca forse di un eccesso di cultural defense quasi grillino.
Se il Politecnico di Milano esagera, non bisogna creare un freno
giudiziario ulteriore alla già ridotta autonomia culturale delle università,
visti anche gli innegabili conflitti di interesse dei giudici professori.
L’art. 6 presuppone, ma non garantisce la lingua ufficiale dello Stato.
Ma dove sta scritto in costituzione che dopo una laurea triennale in lingua
italiana, International Studies o European Studies non potrebbero essere
impartite in lingua inglese per attrarre anche studenti da altri paesi dell’UE ?
Se pensiamo poi a un dottorato in lingua e letteratura anglosassone, viene
involontariamente da ridere sull'”intierezza” della difesa giuridica di un
Italiano che si salva forse più con consigli che con comandi.
Mi permetto un’opinione tranciante: la preoccupazione che la globalizzazione insidi il ruolo della lingua italiana, quando applicata a discipline la cui dimensione naturale è quella globale (esistono forse una matematica italiana o una fisica italiana, che non obbediscono alle regole logiche o alle leggi naturali del resto del mondo?) è una deprecabile sciocchezza sciovinista.
La Corte probabilmente non si è neanche resa conto di quello che faceva. Però nel XXI secolo ci si aspetterebbe che anche uomini di legge siano in grado di capire che il ruolo dell’italiano non è lo stesso per tutte le materie di studio, e che è quindi dannoso adottare lo stesso tipo di protezionismo linguistico per tutte le discipline. Invece no: un altro sintomo del conservatorismo italiano.
E un giorno ci sveglieremo e ci renderemo conto che l’università italiana giace isolata, ai margini del mondo scientifico globale. E come al solito, cercheremo di correre ai ripari con decenni di ritardo.