di Andrea Guazzarotti*
Dove passa il confine tra obiezione di coscienza e opportunismo è assai difficile da stabilire, né un legislatore ‘laico’ può permettersi di istituire ‘tribunali della coscienza’ per verificare l’autenticità delle scelte individuali ispirate da obblighi morali o religiosi. Il legislatore, però, non può neppure permettersi di incentivare il più totale e indiscriminato lassismo di chi è chiamato a far funzionare le istituzioni pubbliche e garantire i diritti riconosciuti dalla legge agli utenti del servizio pubblico. Il che, purtroppo, è proprio ciò che accade in materia del diritto delle donne di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) come disciplinato dalla legge n. 194/1978.
Un diritto, si badi, confermato sia da un referendum popolare (nel maggio 1981) che da plurime decisioni della Corte costituzionale. Il problema è noto da anni: i tassi di obiezione di coscienza dei medici antiabortisti nelle strutture sanitarie pubbliche è altissimo (oltre il 70%), con interi reparti ospedalieri composti da medici obiettori, a partire dal primario, of course! Il che costringe, da un lato, i pochi medici non obiettori a una degradante attività professionale fatta quasi esclusivamente di interruzioni volontarie della gravidanza, da un altro lato, le pazienti a un umiliante ‘turismo del welfare sanitario’, spostandosi da una regione a un’altra, se non addirittura all’estero. È questo uno dei principali motivi che ha portato alla condanna dell’Italia da parte del Comitato europeo dei diritti sociali nel 2013 per violazione del diritto alla salute della donna, come definito dall’art. 11 della Carta sociale europea.
È recente la notizia che, per reagire a tale stato di cose, la Regione Lazio ha assunto medici ‘non obiettori’ con bandi opportunamente ritagliati sulle esigenze di supplire alle carenze del servizio sanitario in materia. Il diritto all’obiezione di coscienza del medico è, in questo modo, neutralizzato, posto che l’oggetto della prestazione stabilito nel contratto pubblico bandito è, specificamente, compiere interruzioni volontarie della gravidanza a norma di legge, per cui l’eventuale obiezione renderebbe il vincitore del contratto incapace di adempiere alla prestazione pattuita, dando alla Regione il potere di rescindere il contratto.
Sebbene il tam-tam giornalistico si sia (ri)accesso di recente, sulla scia delle proteste ‘dall’alto’ (Santa Sede, Ordine dei medici, Ministro della Salute), non si tratta di una prassi inedita, sussistendo sul punto giurisprudenza (favorevole e contraria) dei tribunali amministrativi risalente addirittura all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso. Non risulta a chi scrive che vi sia mai stata una decisione del Consiglio di Stato (ultima istanza della giustizia amministrativa) né della Corte costituzionale a fare la necessaria chiarezza sul punto.
Quello cui è dato, tristemente, di assistere è un duplice fenomeno di ‘privatizzazione’ della società e del vivere comune. È stata la società, nel suo insieme, a ritenere, a suo tempo, che andasse posto rimedio alla piaga degli aborti clandestini e che, più in generale, andasse dato un diverso assetto agli interessi in gioco nella delicatissima vicenda umana dell’aborto. Non lo ha fatto ricorrendo a strumenti privatistici che avrebbero discriminato le donne in base al loro stato sociale e favorito le cliniche private. Lo ha fatto con la decisione democratica che ha imposto ai medici (e ai paramedici) del servizio pubblico di compiere un simile atto di ‘solidarietà’ nei confronti di una parte della società, intesa come comunità, sia pure con l’opzione dell’obiezione di coscienza, purtroppo malamente regolata.
Quello cui assistiamo oggi, invece, è il trionfo della dimensione privata, anzi, privatissima della libertà di coscienza individuale ‘sconfinata’ dei medici obiettori cui si cerca di porre rimedio ricorrendo a moduli contrattuali di stampo privatistico della pubblica amministrazione, col risultato di creare dei ‘paria’ professionali (i medici con contratto precario chiamati a svolgere l’IVG che i medici strutturati non vogliono più fare) al servizio di ‘paria’ sociali (come ormai rischiano di venir stigmatizzate le donne che ricorrono all’IVG, molte delle quali sono straniere). Il ‘privato’ che tenta di arginare il ‘privato’. Non esattamente un dispositivo ispirato a una concezione della società come impresa collettiva comune.
All’origine di tale ‘scadimento’ sociale non sta l’obiezione di coscienza in sé considerata. L’obiezione di coscienza legislativamente tollerabile è quella assistita da un apparato normativo (di incentivi e disincentivi) tale da prevenire l’opportunismo individuale e da rendere l’obiezione stessa un fenomeno minoritario che non mette a repentaglio gli scopi perseguiti dal legislatore. L’obiezione di coscienza al servizio militare di leva (quando c’era) era costruita in modo da onerare l’obiettore di obblighi sostitutivi tali da scongiurare il più totale lassismo e il boicottaggio della leva obbligatoria. Per la legislazione sull’aborto, in Italia, tutto questo non è avvenuto. Per fare un paragone azzardato ma efficace, è come se si fosse consentito ai vertici della gerarchia militare (un comandante di corpo, ad es.) di far obiezione all’uso delle armi e di continuare a svolgere le sue funzioni di apicali, conservando grado e potere gerarchico, secondo la carriera raggiunta. Il che è proprio ciò che avviene quando si consente a un primario di un reparto di ginecologia ed ostetricia di essere obiettore di coscienza all’IVG.
In Francia, addirittura, il problema si poneva in termini più gravi, nella misura in cui, fino a una riforma del 2001, il primario obiettore poteva imporre all’intero reparto da lui diretto l’astensione dal praticare aborti. Poi la legge lo privò di tale assurdo potere e la Corte costituzionale francese riconobbe che esso non aveva nulla a che fare con la libertà di coscienza del primario. Ma il problema dell’indebita influenza sul resto del personale medico e ospedaliero resta: come si può pensare che un giovane medico, neo-assunto, possa sperare di fare carriera in un reparto diretto da un primario obiettore di coscienza, senza subire penalizzazioni? Il grado di indipendenza di cui godono i funzionari pubblici non è quello goduto dai singoli magistrati, dotati dello scudo loro offerto dagli artt. 101 e ss. della Costituzione e dal Consiglio Superiore della Magistratura ivi disciplinato.
Uno dei padri del costituzionalismo italiano, Paolo Barile, nel 1981 affermava che l’aborto viene assunto non come diritto di libertà, ma come “male minore”, allo scopo di sopprimere la piaga dell’aborto clandestino e tutelare la salute delle donne in omaggio all’art. 32 della Costituzione. La si può anche ritenere una visione minimalista, certamente non ‘femminista’. Ma anche per una simile visione, l’aborto era e resta un obiettivo che lo Stato ha inteso affrontare e risolvere in un certo modo, ricorrendo, in primis, alle potenzialità offerte dalla dimensione pubblica del diritto e delle istituzioni. Se obiettivo primario dello Stato è quello di consentire alle donne di ricorrere, entro determinati limiti e in casi il più possibile estremi, alle strutture pubbliche per praticare l’IVG, così da permettere l’emersione del fenomeno sociale, da controllarlo e ridurlo, appare irragionevole che i responsabili del servizio pubblico a ciò incaricato possano tanto agevolmente chiamarsi fuori dagli obiettivi che la società democraticamente si è data.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara.