di Stefano Rossi
Il testo del disegno di legge cd. Gelli in materia di responsabilità professionale nel settore medico (AS 2224 vedi link), ora al vaglio della Camera dei deputati – in seconda lettura – dopo l’approvazione in Senato merita una breve riflessione.
Il provvedimento affronta e disciplina i temi della sicurezza delle cure e del rischio sanitario, della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria e della struttura sanitaria pubblica o privata in cui opera, le modalità e caratteristiche dei procedimenti giudiziari in materia ed infine l’obbligo di assicurazione oltre all’istituzione del Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria.
A soli tre anni dall’approvazione della discussa legge n. 189/2012 (già d.l. Balduzzi), il legislatore si ripromette di intervenire nuovamente in materia, modificando sostanzialmente la responsabilità medica, per come finora delineatasi in materia penale e civile. L’intervento normativo di riordino si pone l’obiettivo di combattere il fenomeno della “medicina difensiva”, ossia l’eccesso di zelo che alcuni medici dimostrano prescrivendo visite, test diagnostici ed esami di dubbia necessità, al fine di cautelarsi da eventuali denunce o richieste di risarcimento dei pazienti. Al contempo, nel tentativo di raggiungere un preteso equilibrio tra tutela del paziente e limite al contenzioso, prosegue lungo la strada tracciata dal decreto Balduzzi nella creazione di un “sottosistema” della responsabilità professionale sanitaria con il dichiarato scopo di alleggerire la pressione del contenzioso medico-paziente.
Si può osservare, quanto al versante penalistico, come nella disciplina dettata dalla proposta di legge – specie dopo il passaggio al Senato – sia venuto meno ogni riferimento al grado della colpa al fine di escludere la punibilità del sanitario, punibilità che viene ad essere elisa per i soli casi in cui siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, e sempre che risultino adeguate alle specificità del caso concreto, ovvero, in mancanza di esse, alle buone pratiche clinico-assistenziali. Vi è da notare comunque che le linee guida sono sempre un’arma a doppio taglio, discendendo da una concezione iper-semplificata e positivistica della medicina, laddove la realtà clinica è, invece, complessa, il che rende discutibile un’attuazione meccanica e stereotipata di poche regole fissate in modo rigido. Spetterà quindi al giudice l’ultima parola, dovendo vagliare in concreto l’adeguatezza delle raccomandazioni prescritte nelle fonti di soft law alle esigenze e alle peculiarità del singolo paziente.
Una previsione simile sembra pertanto conformarsi a quanto auspicato nell’ordinanza n. 295/2013 della Corte costituzionale nella quale, avallando la tesi prevalente in giurisprudenza e in dottrina, si è affermato che «la limitazione di responsabilità viene in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente».
Più controversa appare la soluzione (qualificata espressamente come imperativa) prospettata per la responsabilità civile in ambito sanitario, in relazione alla quale si prevede una sorta di doppio binario: contrattuale a carico delle strutture sanitarie, pubbliche o private, e dei liberi professionisti ed extracontrattuale per l’esercente la professione sanitaria che svolge la propria attività nell’ambito di una struttura sanitaria pubblica, privata o in rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale.
La proposta Gelli sancisce quindi il definitivo superamento della teoria della responsabilità da contatto sociale (enunciata per la prima volta dalla Corte di cassazione, con sentenza 589 del 1999; già elaborata in dottrina da Mengoni e Castronovo) che definisce la relazione medico/paziente come un rapporto “sociale” idoneo ad ingenerare l’affidamento tra i soggetti coinvolti in virtù del vincolo “qualificato” dall’ordinamento giuridico che la caratterizza, ricollegandovi una serie di doveri di collaborazione e protezione volti alla salvaguardia di determinati beni giuridici, la cui violazione viene sottoposta al regime contrattuale di cui all’art. 1218 c.c.
Tale costruzione teorica, frutto del contributo curiale e dottrinario, nasceva dall’esigenza di tutelare maggiormente il paziente sia con riferimento al termine di prescrizione, sia ai fini del riparto dell’onere probatorio laddove il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contatto sociale e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del sanitario idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico di quest’ultimo dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur essendo venuto in essere, esso non è stato eziologicamente rilevante.
La revisione di questo schema di riparto dell’onere della prova, in senso gravoso per il paziente vittima di malpractice, si scontra con il principio di cd. “vicinanza o prossimità della prova”, in forza del quale la prova deve essere data dalla parte che più facilmente può accedere alla relativa fonte, indipendentemente dal suo ruolo all’interno del processo (Cass. civ. n. 13533 del 2001). Tale principio rinviene le sue radici nell’art. 24 Cost. che, nel garantire a tutti il diritto di difesa e di azione in giudizio, vieta contemporaneamente di interpretare la legge in modo da renderne impossibile, o eccessivamente difficile l’esercizio.
Chiaramente questo criterio trova applicazione specialmente nei casi di rapporti professionali ed obbligazioni che comportano prestazioni con elevato tecnicismo, nelle quali una parte si affida all’altra senza possedere le conoscenze specifiche che gli permettano, in seguito ad una eventuale azione di responsabilità, di provare che è mancata la specifica diligenza richiesta al professionista, imponendo, di converso, allo stesso di rendere intellegibile e trasparente il percorso alla base delle proprie scelte terapeutiche e delle cure prestate.
Si possono altresì prospettare dubbi di costituzionalità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in relazione alla disposizione che impone un duplice regime di responsabilità, laddove nel configurare la responsabilità del medico dipendente come extracontrattuale e, viceversa, quella del medico libero professionista e dell’ente ospedaliero in termini di responsabilità contrattuale, si viene a porre in essere una violazione del principio di uguaglianza nei termini di una irragionevole differenza di trattamento.
La Corte costituzionale ha costantemente ritenuto che il contrasto con il principio di eguaglianza è rilevabile dal giudice della legittimità costituzionale solo quando la disparità di trattamento risultante dal confronto fra le discipline adottate dal legislatore in ordine a più fattispecie relativamente omogenee sia tale da non trovare alcun ragionevole fondamento nella diversità delle situazioni alle quali ognuna di esse ha inteso provvedere.
Si può rilevare come la responsabilità del medico non possa essere valutata in modo diverso a seconda che questi sia dipendente del Servizio sanitario nazionale, soggetto convenzionato o libero professionista allo stesso modo in cui tale differenza non assume rilievo nel valutare la condotta del sanitario in base al codice deontologico così come in forza delle linee guida.
L’irragionevolezza della differenziazione di trattamento introdotta dalla novella legislativa emerge anche dalla considerazione secondo cui la prestazione professionale del medico nei confronti del paziente è sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d’opera professionale. L’esercizio della professione medica è infatti un servizio di pubblica necessità che può essere svolto solo da soggetti dotati di una speciale abilitazione dello Stato e delle cui prestazioni i pazienti sono obbligati per legge a valersi, sicchè, trattandosi di una professione protetta, l’esercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda che esista o meno un contratto tra le parti. Allo stesso modo se il medico – pur in assenza di un contratto – presta la propria attività professionale, essendovi tenuto nei confronti della struttura ospedaliera di cui è dipendente, l’esercizio di tale attività, e quindi il rapporto paziente-medico, non potrà dirsi differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto di prestazioni tra medico e paziente.
Il medico è infatti obbligato a svolgere una prestazione professionale in virtù del contratto di lavoro o di collaborazione che lo lega alla struttura sanitaria, ma al contempo quest’ultimo costituisce anche il presupposto necessario che legittima il paziente a richiedere le prestazioni al personale sanitario che opera nella struttura, prestazioni al cui adempimento il personale stesso non solo non si può sottrarre, ma a cui deve adempiere con la diligenza professionale propria dell’attività esercitata. Pertanto quando ricorre la violazione degli obblighi connessi a tali prestazioni, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale.
In proposito la Cassazione (ex pluris Cass. civ., n. 7989 del 1994) ha precisato che la responsabilità extracontrattuale ricorre soltanto quando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un danno ingiusto non legato all’attore da alcun rapporto giuridico precedente, o comunque indipendentemente da tale eventuale rapporto, mentre, se a fondamento della pretesa venga enunciato l’inadempimento di un’obbligazione volontariamente contratta, ovvero anche derivante dalla legge, è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale.
Ancora, sotto il profilo soggettivo, sia la responsabilità del medico dipendente sia quella della struttura sanitaria hanno radice nell’esecuzione della prestazione della prestazione in modo negligente o imperito da parte del medico, per cui, accertata la stessa, contestualmente ne consegue la responsabilità contrattuale e solidale di entrambi, laddove tale qualificazione discende non dalla fonte dell’obbligazione, ma dal contenuto del rapporto.
Un ulteriore effetto perverso del doppio regime potrebbe realizzarsi qualora, per lo stesso sinistro, il medico e l’azienda sanitaria vengano citati in giudizio separatamente, con il rischio per il medico dipendente di essere condannato a titolo extracontrattuale ed anche di doversi difendere dalla inevitabile rivalsa dell’azienda. Così, grazie a questa innovazione, il medico dipendente e quello convenzionato si troveranno costretti a stipulare oltre alla polizza per la colpa grave, che li tutela attualmente, anche una polizza molto più costosa per la responsabilità professionale di tipo extracontrattuale.
Il nuovo regime viene inoltre a discriminare anche la posizione dei pazienti danneggiati che intendano agire in giudizio per far accertare la responsabilità di un medico dipendente di una struttura terza rispetto a chi invece – avendo subito la medesima lesione – dovesse agire direttamente nei riguardi delle strutture sanitarie o di sanitari operanti in libera professione, beneficiando di un onere probatorio meno gravoso. In tal senso – come ricordato sopra – la configurazione, da parte del legislatore, di criteri che facciano carico ad una delle parti dell’onere di una prova eccessivamente difficile o impossibile, e compromettano in tal modo l’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale costituzionalmente riconosciuto, difficilmente potrebbe sfuggire a censura per violazione dell’art. 24, 1° e 2°co., Cost., in quanto ne risulterebbe ingiustamente sacrificato il diritto di azione di chi intende ottenere tutela giurisdizionale.
Secondo il rapporto annuale Agenas sui sinistri in sanità, in Italia si contano 20 denunce ogni 10 mila dimissioni dagli ospedali e nell’80% dei casi la giustizia ha riconosciuto le ragioni dei pazienti. Il percorso per ottenere un risarcimento è comunque defatigante, laddove per avviare una causa sono necessari 872,53 giorni e altri 542,45 giorni per arrivare a sentenza, ossia poco meno di 4 anni. In termini economici, il costo medio dei risarcimenti ammonta a più di 52 mila euro, di cui il 65% riguarda lesioni personali, mentre il 12,88% decessi.
Se è dunque legittimo che il legislatore voglia perseguire l’obiettivo di ridurre le conseguenze della medicina difensiva e delle liti temerarie in materia sanitaria, ci si può chiedere se la strada scelta – che consacra un ritorno al passato – non sacrifichi troppo, venendo a ridurre le tutele offerte ai pazienti-cittadini, senza per questo offrire maggiori garanzie ai sanitari.