La sovranità limitata in favore dell’UE e ‘controlimitata’ in favore della Costituzione
La nostra Corte costituzionale (ord. n. 24/2017) ha chiesto alla Corte di giustizia UE di tornare sui suoi passi e spiegare se, nella decisione sul caso Taricco, essa abbia davvero imposto ai giudici italiani la disapplicazione delle norme penali di favore in materia di frodi sull’IVA per effetto dei vincoli derivanti da una disposizione del Trattato (art. 325 TFUE), o non abbia, piuttosto, inteso lasciare ai giudici nazionali la valutazione circa il grado di ‘tollerabilità costituzionale’ che l’applicazione diretta di quella disposizione europea comporta.
L’art. 325 TFUE, citato, afferma l’obbligo degli Stati membri di punire con sanzioni efficaci le frodi contro gli interessi finanziari dell’UE, in ogni caso, con sanzioni che siano analoghe a quelle previste per combattere le frodi contro gli interessi finanziari esclusivamente nazionali (come noto, una parte dell’IVA è incamerata dall’UE). L’articolo in questione è stato interpretato dalla Corte di giustizia in modo da trarne una norma autoapplicativa negli ordinamenti nazionali (in primis, in quello italiano) che suona, grosso modo, così: qualsiasi disposizione non strettamente sostanziale (previsione degli elementi del reato o della pena), come ad es. la disciplina della prescrizione del reato, deve essere disapplicata dal giudice nazionale qualora finisca per garantire l’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave lesivi degli interessi finanziari dell’UE, ovvero qualora risulti meno rigorosa rispetto a quella prevista per omologhi casi di lesione di interessi finanziari dello Stato (ad es. un termine di prescrizione più breve per le frodi comunitarie rispetto a quelle puramente nazionali).
Una simile norma di creazione giurisprudenziale ha il potere di trasformare un vincolo del Trattato (art. 325 cit.) prevalentemente ‘programmatico’ in uno immediatamente vincolante, cioè di trasformare un comando diretto ai legislatori nazionali (adottare sanzioni penali e/o amministrative sufficientemente dissuasive, assistite da adeguate norme di contorno, quali quelle sulla prescrizione), in un comando diretto ai giudici nazionali (condannare tutti coloro che si sono macchiati di frodi contro l’UE, disapplicando tutte le norme nazionali di garanzia contrarie a tale esito). Tale trasformazione ha il piccolo inconveniente. Essa amplia a dismisura la discrezionalità dei giudici penali (che significa “numero considerevole di frodi gravi”?), a discapito del principio costituzionale di stretta legalità penale (art. 25 Cost.), ossia di una versione particolarmente forte della certezza del diritto a garanzia dei diritti dei cittadini. Stante la gravità della sanzione penale, questi ultimi devono essere messi nella condizione di poter prevedere, con maggior grado di certezza che in altri ambiti del diritto, le possibili conseguenze delle proprie condotte.
La Corte costituzionale, rivolgendosi alla Corte di giustizia, chiarisce che non era in alcun modo prevedibile, al momento in cui gli imputati nel caso Taricco compirono gli atti truffaldini (frodi c.d. carosello per detrarre indebitamente l’IVA), che il diritto dell’Unione avrebbe comportato la neutralizzazione della disciplina interna sulla prescrizione di quel tipo di reati, rendendo gli autori delle frodi imputabili per un periodo di tempo assai più lungo di quello previsto ex lege. Per questo motivo, la Corte costituzionale ritiene che dar seguito alla ‘direttiva interpretativa’ coniata dalla Corte di giustizia comporterebbe la violazione di un principio costituzionale ‘supremo’, insuscettibile di limitazioni ai sensi dell’art. 11 Cost. (un ‘controlimite’, appunto), un principio che contribuisce a determinare la nostra ‘identità costituzionale’ e, come tale, non è sacrificabile neppure dinanzi agli obiettivi nobili dell’integrazione europea (pace e giustizia tra le nazioni, come recita l’art. 11 Cost., cit.).
Prima di capire cosa succederà nel processo dinanzi ai giudici europei attivato dal rinvio pregiudiziale della nostra Corte costituzionale, occorre rilevare che questo caso ha in comune con alcuni precedenti della Corte di giustizia un dato abbastanza evidente: i giudici nazionali cercano di allearsi con il giudice europeo per scardinare un insieme di lacci e laccioli apprestato dal legislatore nazionale per ostacolare il loro perseguimento della giustizia (garantendo l’impunità rispetto a reati difficili da indagare e perseguire).
Il precedente più noto è quello della depenalizzazione del ‘falso in bilancio’ compiuta dal Governo Berlusconi all’inizio della XIV Legislatura e sfociata nella decisione d’inammissibilità della Corte di giustizia del 2005 (sentenze Berlusconi e a., C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02). Se allora, forse anche per la politicità intrinseca del caso, la Corte di giustizia aveva evitato di aggravare a posteriori la situazione processuale dell’(illustre) imputato, oggi essa sembra dare ai giudici italiani carta bianca, poco importa se ciò li trasformi in dei soggetti altamente discrezionali, titolari di un potere di adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello europeo che sembrerebbe piuttosto spettare agli organi politico-legislativi nazionali. Ma si sa, se questi ultimi non intervengono, qualcuno deve pur farlo, o no? È da anni, infatti, che in Italia si dibatte sull’inadeguatezza della disciplina della prescrizione, la quale, sommata al cronico ingolfamento della giustizia, finisce per garantire l’impunità per tutti quei reati di più difficile indagine.
In simili casi di inadeguatezza dell’ordinamento nazionale rispetto ai vincoli prefigurati dai Trattati europei, invero, un rimedio c’è e non è quello del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia fatto dai giudici nazionali per ottenere ‘licenza di riformare’, ossia il potere concesso dal fiat della Corte dell’UE di disapplicare tutto il diritto nazionale contrastante con le norme europee, baypassando sia il Parlamento che la stessa Corte costituzionale. Il rimedio corretto consiste nella procedura d’infrazione contro lo Stato inadempiente che solo la Commissione UE può attivare, deferendo il Governo nazionale alla stessa Corte di giustizia (artt. 258-260 TFUE).
A differenza del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sollevato dai giudici nazionali (art. 267 TFUE), l’esito di tale procedura, qualora fosse di incompatibilità tra diritto nazionale e diritto UE, non condurrebbe automaticamente alla prevalenza del diritto europeo su quello nazionale (ossia, non consegnerebbe ai giudici nazionali la famigerata ‘licenza di riformare’ evocata sopra), bensì condurrebbe al solo obbligo dello Stato di porre rimedio alla violazione accertata, pena il rischio di una seconda procedura sfociante in una sanzione pecuniaria. Così, se ad es. viene accertato che lo Stato non rispetta la normativa europea sulle discariche, stante l’eccessivo numero di quest’ultime, lo Stato sarà tenuto a pagare una serie di ammende fintanto che la Commissione non accerterà che le discariche si sono ridotte entro le soglie consentite, ecc.
Si tratta di una procedura sanzionatoria tipicamente internazionalistica, che lascia allo Stato la libertà di scegliere i tempi e i mezzi della riforma interna da compiere, sia pure sotto il pungolo dell’ammenda. Questa procedura ha però un piccolo difetto: la sua ‘politicità’. Essa, infatti, può essere attivata solo da un organo ‘politico’, qual è la Commissione europea. Nel noto caso Berlusconi, cit., la Commissione è intervenuta nel giudizio sul ricorso pregiudiziale dei giudici italiani dinanzi alla Corte UE per sostenere la chiara incompatibilità con il diritto UE della depenalizzazione parziale del falso in bilancio (compiuta dal Governo italiano per salvare il suo capo dai processi penali in cui era coinvolto in quanto proprietario di Mediaset); una volta che la Corte UE ha dichiarato l’inammissibilità di quel ricorso pregiudiziale (per motivi formali che lasciavano impregiudicata la questione della legittimità della depenalizzazione), la stessa Commissione si è limitata a prenderne atto, senza poi intraprendere alcuna procedura d’infrazione. E dire che, alla luce dei precedenti, essa avrebbe potuto quasi sicuramente ottenere la condanna dell’Italia, se solo l’avesse voluto.
La politicità della procedura d’infrazione è spiegabile alla luce del fatto che la Commissione europea non ha solo la funzione di ‘cane da guardia’ verso gli Stati membri che violino gli obblighi dell’ordinamento UE, ma anche quella di negoziare complessi accordi politici con i singoli governi nazionali (e con il Parlamento europeo) per far partire qualsiasi riforma legislativa (nella maggior parte dei casi, l’iniziativa legislativa per giungere all’approvazione di direttive e regolamenti europei spetta, infatti, alla sola Commissione). Ed è cosa assai complicata chiedere la condanna di uno Stato il giorno prima, per poi chiedergli l’accordo su una proposta legislativa il giorno dopo, specie se si tratta di uno Stato rilevante per dimensioni o peso politico.
E qui veniamo al paradosso dei controlimiti nel nostro caso Taricco. Che cosa accadrebbe, infatti, se alla richiesta sollevata dalla nostra Corte costituzionale affinché la Corte di giustizia ‘ci ripensi’, segua un rifiuto, più o meno garbato, della Corte di giustizia? La nostra Corte dovrebbe, coerentemente, attivare lo scudo spaziale dei ‘controlimiti’ e dichiarare l’incostituzionalità della norma europea, sia pure utilizzando lo stratagemma formale di colpire parzialmente la legge italiana d’esecuzione dei Trattati europei. Noi resteremmo nell’UE, niente paura, ma ci sottrarremmo al rispetto di uno degli obblighi che, stando all’interpretazione della Corte di giustizia, deriverebbero dai Trattati. E allora? Che cosa rischieremmo?
Non potendo la Corte di giustizia attivarsi d’ufficio per far valere il vincolo delle sue pronunce, l’unico scenario prospettabile sarebbe quello di una procedura d’infrazione attivata dalla Commissione europea contro lo Stato italiano, responsabile per la ‘ribellione’ dei propri giudici, Corte costituzionale in testa. Il che è paradossale, nella misura in cui la stessa Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto (nell’ordinanza n. 24/2017, cit.), che lo Stato italiano ha il dovere di rivedere la sua disciplina della prescrizione, in modo da conformarsi agli obblighi derivanti dall’art. 325 TFUE cit., sull’effettività delle sanzioni contro le frodi comunitarie. Solo che tale risultato lo si può ottenere solo attraverso riforme legislative, magari pungolate da una bella procedura d’infrazione, non attraverso manovre surrettizie capaci di scardinare il principio costituzionale di stretta legalità in materia penale.
Un bel cortocircuito! Per farci riformare la disciplina della prescrizione che garantisce l’impunità per le frodi contro gli interessi finanziari dell’UE, il sistema europeo sembra non essere in grado di colpire il sistema politico-legislativo italiano passando per le vie corrette (la procedura d’infrazione) e preferisce affidarsi allo strumento improprio del rinvio pregiudiziale (trasformando i giudici nazionali in guardiani dell’ordine europeo con ‘licenza di riformare’ e dando loro poteri discrezionali incompatibili con la certezza del diritto e la legalità penale). Questo uso surrettizio dei rimedi processuali dei Trattati, di cui è artefice la Corte di giustizia in combutta con i giudici penali nazionali, finirebbe indirettamente per essere portato dinanzi alla stessa Corte di giustizia, qualora la Commissione volesse attivare una procedura d’infrazione per reagire alla ‘ribellione’ della nostra Corte costituzionale, rea di aver elevato lo scudo dei ‘controlimiti’. Ce n’è abbastanza per credere che la Corte di giustizia, o, in subordine, la Commissione, verranno a più miti consigli, specie in tempi di euroscetticismo come questi.
*Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
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