di Alessandro Mangia*
In un intervento di qualche settimana fa, e prima della pronuncia della Corte, Roberto Bin si interrogava, non a torto, sulle conseguenze in ordine al processo costituzionale di una eventuale pronuncia nel merito sull’Italicum. Gli argomenti di Bin, peraltro già circolanti nel dibattito anteriore alla decisione, erano sostanzialmente due.
L’Italicum, innanzi tutto, sarebbe stata una legge che aveva ancora avuto alcuna applicazione, e nel nostro ordinamento ad essere impugnate davanti alla Corte sono le norme in quanto applicate. Pagine di giurisprudenza e letteratura scientifica sul ‘diritto vivente’ starebbero a suffragare questa affermazione – sembra di potere aggiungere – e accedere una diversa impostazione avrebbe significato superare d’un tratto un dato comunemente riconosciuto, ossia che il giudizio costituzionale è un giudizio concreto, che deve avere una ricaduta sui una controversia attualmente in corso, rispetto alla quale la pronuncia della Corte deve avere un effetto condizionante. E siccome l’Italicum non sarebbe ancora stato applicato, la questione avrebbe dovuto essere ritenuta inammissibile, innanzi tutto perché astratta (‘teorica’ ci dice Bin).
In secondo luogo, l’esame nel merito delle questioni di legittimità sull’Italicum avrebbe avuto, sempre secondo Bin, un’altra conseguenza, anche più rilevante, ma connessa alla prima. Avrebbe cioè confermato l’ammissibilità della prassi di impugnare disposizioni di legge attraverso la proposizione, avanti al giudice ordinario, di un’azione di accertamento di un diritto riconosciuto in Costituzione, sul quale le disposizioni impugnate sarebbero però in grado di incidere. Il che rischierebbe di dare luogo ad una alterazione profonda e irreversibile della fisionomia del giudizio in via incidentale. Sostiene Bin – credo giustamente – che una pronuncia nel merito sull’Italicum avrebbe potuto sancire l’introduzione nel nostro sistema di giustizia costituzionale di qualcosa di molto simile al ricorso diretto. E ciò per il fatto che “se chiunque potesse promuovere un’azione di accertamento di un qualche suo diritto prima della concreta violazione di esso avremmo introdotto in Italia una forma di impugnazione diretta delle leggi che in altri Paesi c’è, ma è prevista dalla loro Costituzione. Una volta avviata per questa strada, come potrà la Corte spiegare che essa è aperta solo per le leggi elettorali e per i “diritti politici” e non per altri diritti certo non meno rilevanti per i cittadini: il diritto all’ambiente, la tutela del risparmio, la protezione dei beni culturali, il diritto alla ricerca scientifica, la salute… Perché per questi diritti bisognerebbe aspettare atti concreti e personali di violazione e non si potrebbe chiedere preventivamente l’accertamento giudiziale della loro violazione? ”
Si tratta di un interrogativo più che fondato. E tuttavia si tratta di un interrogativo destinato a restare aperto, non perché la Corte non si sia pronunciata nel merito, superando in modo piuttosto convincente l’obiezione imperniata sulla non ancora intervenuta applicazione della legge elettorale, ma perché a restare incerti o, per lo meno, non del tutto chiariti, sono diversi aspetti dell’azione di accertamento, primo fra tutti quello relativo alla natura dell’interesse su cui tale azione poggerebbe.
Intanto, quanto al primo punto, è da osservare che la Corte (3.3 del Considerato in diritto) distingue nettamente tra applicazione di una disciplina in concreto e la sua efficacia in astratto: … l’incertezza oggettiva sulla portata del diritto di voto è direttamente ricollegabile alla modificazione dell’ordinamento giuridico dovuta alla stessa entrata in vigore della legge elettorale, alla luce dei contenuti di disciplina che essa introduce nell’ordinamento. Non rileva la circostanza che, come avviene in questo caso, le disposizioni della legge siano ad efficacia differita, poiché il legislatore – stabilendo che le nuove regole elettorali siano efficaci a partire dal 1° luglio 2016 – non ha previsto una condizione sospensiva dell’operatività di tali regole, legata al verificarsi di un evento di incerto accadimento futuro, ma ha indicato un termine certo nell’an e nel quando per la loro applicazione. Il fatto costitutivo che giustifica l’interesse ad agire è dunque ragionevolmente individuabile nella disciplina legislativa già entrata in vigore, sebbene non ancora applicabile al momento della rimessione della questione, oppure al momento dell’esperimento dell’azione di accertamento: le norme elettorali regolano il diritto di voto e l’incertezza riguarda la portata di quest’ultimo, con il corollario di potenzialità lesiva, già attuale, sebbene destinata a manifestarsi in futuro, in coincidenza con la sua sicura applicabilità (a decorrere dal 1° luglio 2016).
Corollario del ragionamento è che la rimozione di tale incertezza rappresenta un risultato utile, giuridicamente rilevante, e non conseguibile se non attraverso l’intervento del giudice. Ne deriva la sussistenza, nei giudizi a quibus, di un interesse ad agire in mero accertamento.
Dunque, con buona pace di quanti avevano ragionato muovendo dal carattere necessariamente concreto della controversia su cui normalmente dovrebbe pronunciarsi la Corte – e su cui, vale la pena di dirlo, aveva insistito non poco l’Avvocatura di Stato – questo passo ci fa capire che, affinché una questione sia ammissibile, è sufficiente che abbia per oggetto una disciplina applicabile. E, nel caso di specie, questa disciplina sarebbe applicabile solo perché efficace o, per usare il linguaggio della Corte, semplicemente perché, essendo già entrata in vigore, è suscettibile di applicazione in ogni momento.
Non si tratta di una distinzione di poco conto: sulla distinzione tra norma applicata e norma applicabile si gioca la differenza tra un danno effettivo e un danno potenziale, e dovrebbe essere evidente che sussiste tanto un interesse oggettivo dell’ordinamento, quanto un interesse soggettivo delle parti attrici nel giudizio (d’accertamento) a quo, alla rimozione di una disciplina incostituzionale, a prescindere dal fatto che questa abbia già prodotto o meno una lesione concreta delle posizioni soggettive delle parti.
Qualcosa del genere, del resto, si è già avuto, tempo addietro, sulla legittimità costituzionale delle norme di favore nel processo penale. Che queste norme, comunque vada a finire il giudizio di legittimità, non siano destinate a trovare applicazione nel giudizio a quo non vuol dire che non siano presenti nell’ordinamento, e che non meritino di essere oggetto di cognizione innanzi alla Corte. C’è comunque un interesse che non si può che definire oggettivo al loro sindacato (C. cost. 148/1983, punto 3 del Considerato in diritto) perché “le norme penali di favore fanno anch’esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell’ordinamento. Ma lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe reagire all’annullamento di norme del genere, non é un quesito cui la Corte possa rispondere in astratto … sicché, per questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi) inerente all’interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell’ambito delle rispettive competenze”. Anche qui, come nel caso della sentenza sull’Italicum, un nesso tra interesse oggettivo all’annullamento e situazione delle parti nel giudizio a quo viene ritrovato, seppure con maggior fatica, salvo poi spostare l’attenzione sui processi di applicazione/interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che sarà affare dei giudici ordinari gestire man mano.
Quel che è certo è che, a prescindere dai richiami alla giurisprudenza precedente, questo passaggio, che sembra mettere in crisi le classificazioni tradizionali del processo costituzionale (come giudizio astratto/preventivo vs. concreto/successivo) è, nella logica della sent. 35/2017, un passaggio chiave, imposto dalla natura dell’azione avviata nel giudizio a quo – un’azione di accertamento – i cui profili sembrano fatti apposta per mandare in corto circuito le sistemazioni tradizionali: e cioè quelle sistemazioni per cui, se il giudizio è concreto, deve per forza riguardare una norma come già applicata. E infatti non c’è dubbio che, se si entra in questa prospettiva, l’unico approdo possibile è sostenere che, laddove la norma impugnata non abbia ancora trovato applicazione, la relativa questione di costituzionalità dovrebbe ritenersi sempre e comunque inammissibile.
Il punto è che, per la 35/2017, le cose stanno diversamente, perché qui, nel giudizio a quo, non si chiedeva un intervento ripristinatorio di una lesione avvenuta, ma soltanto un accertamento della portata di un diritto. Ed è questa la ragione per cui la Corte ha dovuto distinguere tra applicazione e applicabilità per arrivare a dire che, nel caso dell’Italicum, la questione sarebbe tutt’altro che astratta, dato che riguarda una norma vigente e quindi comunque applicabile, indipendentemente dal fatto che abbia già trovato applicazione.
Il che, però, dovrebbe rammentarci una cosa: e cioè che la connotazione in senso concreto del giudizio costituzionale non può essere esasperata fino a porre in ombra il fatto che questo giudizio presenta comunque schemi di funzionamento riconducibili al modello di un giudizio oggettivo. Il processo costituzionale non è, cioè, un giudizio destinato a muoversi nella prospettiva di tutelare una posizione soggettiva concreta, venendo a mancare la quale il giudizio perde ragion d’essere. Questo sarà semmai rilevante per il giudizio a quo, non solo quando prende le forme dell’azione di accertamento.
Piuttosto, episodi come le due decisioni sulla legislazione elettorale del 2014 e del 2017, o altri, più antichi, come la vicenda relativa alle norme penali di favore, lasciano intendere che la concretezza del processo costituzionale può tranquillamente coniugarsi alla sussistenza del carattere obiettivo di questo, in linea di quanto già sostenuto in passato da altri (cfr., ad es., V. Angiolini, La manifesta infondatezza nei giudizi costituzionali, 1988, p. 112 ss.).
Insomma, che la Corte rilevi “il potenziale lesivo, già in atto” della normativa impugnata e, sulla base di questa valutazione, passi all’esame nel merito, potrebbe e dovrebbe essere letto, per evitare cortocircuiti, alla luce del fatto, tutt’altro che nuovo, che scopo del processo costituzionale non è l’accertamento di una concreta lesione del diritto dedotto nel giudizio a quo, quanto l’accertamento dell’incompatibilità tra norme vigenti e costituzione, purché questa incompatibilità sia dedotta nell’ambito di una controversia concreta: e cioè che non sia cioè una lis ficta in cui petitum del giudizio a quo e del giudizio costituzionale coincidano.
A ragionare diversamente, e cioè dare per scontato che la mancanza di una lesione attuale del diritto (costituzionale) dedotto nel giudizio a quo a base dell’accertamento determini il venir meno dei presupposti del processo costituzionale, significherebbe semmai dare per scontato proprio ciò che si è sempre rimproverato (fino alla remissione della Cassazione del 2013) agli attori: e cioè che oggetto del giudizio a quo e oggetto della questione sarebbero coincidenti. Sicché senza una lesione attuale (davanti al giudice a quo) non ci potrebbe essere nemmeno ammissibilità della questione (davanti alla Corte).
In realtà, al di là di ogni considerazione sul valore normativo dei modelli (e cioè del modello del giudizio costituzionale come giudizio concreto e obiettivo che sembra uscire da questa pronuncia), forse bisognerebbe osservare che questa apparente contaminazione – e il conseguente, apparente cortocircuito della modellistica – trova una spiegazione in ordine al fatto che, nel caso dei due giudizi elettorali, la questione di costituzionalità scaturisce da una azione di accertamento: e cioè, facendo riferimento proprio a quella stranezza cui faceva riferimento Bin, da una azione che non mira ad ottenere una condanna o un qualunque altro effetto di natura costitutiva, ma che mira semplicemente a stabilizzare la portata di un diritto, accertandone il contenuto, nella prospettiva di una utilità che, per l’attore, può essere tranquillamente futura ed eventuale (cfr. 3.3: “è la natura dell’azione di accertamento a non richiedere necessariamente la previa lesione in concreto del diritto, ai fini della sussistenza dell’interesse ad agire, ben potendo tale azione essere esperita anche al fine di scongiurare una futura lesione”).
E non è un caso, allora, che buona parte della motivazione della Corte sull’ammissibilità sia giocata sulla questione del sindacato sull’interesse ad agire nell’ambito delle azioni di accertamento da parte del giudice a quo. Come casuale non è che la Corte si liberi del problema partendo dal presupposto che, sotto questo profilo, basta che nell’ordinanza di remissione si dia conto in modo “sufficiente” e “non implausibile” della sussistenza di questo interesse, fermo restando che non spetta alla Corte sovrapporre la sua valutazione a quella del giudice a quo.
Comunque, per tornare all’interrogativo posto da Bin sull’irrompere del giudizio ad accesso diretto, e per cominciare ad eliminare qualche dubbio sulla struttura del processo costituzionale, basterebbe osservare che la Corte, nella sua motivazione, si preoccupa del problema e sistematizza la sua giurisprudenza in quattro punti (3.1 del Considerato in diritto) a conclusione del quale sta l’affermazione per cui, stante “l’esigenza di evitare, con riferimento alla legge elettorale politica, una zona franca rispetto al controllo di costituzionalità attivabile in via incidentale, deve restar fermo quanto deciso con la sentenza n. 1 del 2014, negli stessi limiti ivi definiti”.
Il che sembra voler dire che, a tutt’oggi, secondo la Corte, questa modalità di accesso deve ritenersi limitata ai giudizi che coinvolgano la disciplina elettorale o, al più, il diritto di voto, proprio al fine di evitare una trasmutazione del processo costituzionale.
Non c’è dubbio che, limitatamente a questa vicenda, l’azione di accertamento abbia funzionato come un rimedio surrogatorio rispetto alle ordinarie modalità di instaurazione del giudizio costituzionale: qualcosa di simile, insomma, all’accesso diretto, come giustamente rilevato da Bin. È, però, impossibile fare previsioni sugli sviluppi di questa prassi, stante che a tutt’oggi la magistratura ordinaria mostra una forte resistenza all’impiego dell’azione di accertamento come canale di accesso alla Corte, muovendo proprio da un sindacato particolarmente stretto sulla sussistenza dell’interesse ad agire in questo genere di azione. Che forse potrebbe ritenersi non del tutto giustificato, soprattutto a fronte dei connotati che ormai normalmente vengono attribuiti alle azioni di accertamento da parte degli cultori del diritto processuale (cfr. C. Consolo, L’antefatto della sentenza della Consulta: l’azione di accertamento della ‘qualità’ ed ‘effettività’ del diritto elettorale, in Corr. Giur. 1/2014, 7 ss.), e che può trovare una spiegazione innanzi tutto nel timore del giudice ordinario, ancor prima che della Corte, di trovarsi a gestire un numero spropositato di azioni miranti a raggiungere l’accesso alla tutela erogata dalla Corte.
Il che ci dovrebbe far capire che ci si trova di fronte ad una evoluzione del processo costituzionale la cui traiettoria dipende, com’è naturale, dall’atteggiamento della Corte, ma che, almeno in questa fase, sembra dipendere in misura forse maggiore dall’accoglimento che potrà trovare presso la giurisprudenza ordinaria la prassi dell’azione di accertamento di un diritto costituzionalmente garantito come surrogato funzionale del ricorso diretto.
* Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano
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