di Alberto Azzena e Francesco Monceri
Nella recente sentenza sulla legge elettorale la Corte costituzionale si è addentrata in una questione di pressoché impossibile soluzione, una sorta di quadratura del cerchio, che l’ ha condotta a una vistosa contraddizione che forse poteva esser resa meno vistosa.Ha “raccomandato”, come scrivono i giornali, o comunque, se non le si riconosce un potere “ottativo”, ha enunciato un principio costituzionale derivato, secondo il quale in un sistema di bicameralismo paritario, che il recente referendum costituzionale ha confermato quasi plebiscitariamente (almeno rispetto alla quantità di istanze di cambiamento che erano affiorate) deve essere garantita una maggioranza omogenea fra le due Camere. E questo in nome della governabilità. In realtà si potrebbe ragionare al contrario e sostenere che se il Costituente ha inteso optare per un bicameralismo perfetto o paritetico ha mostrato di voler privilegiare un sistema che non rafforzasse il Governo a scapito del Parlamento e degli innumerevoli orientamenti politici che vi sono (vi debbono essere) rappresentati.
Si potrebbe addirittura vedervi una conferma del timore, in molti casi appariscente, del Costituente di sbarrare la strada a un paventato ritorno a un sistema che dell’Esecutivo “forte” facesse di nuovo lo scalino per instaurare una dittatura incurante di tutte le libertà costituzionalmente garantite. Convinzione che ha dominato in Italia in tutto il periodo post-bellico senza che nessuno prestasse attenzione alla semplice quanto evidente constatazione che facendo un ulteriore passo rispetto all’avvento del regime fascista si sarebbe potuto scoprire il nesso di conseguenzialità di quest’ultimo evento rispetto alla insofferenza generata negli elettori dai Governi deboli del primo dopoguerra, incapaci in quanto tali di guidare la ricostruzione postbellica e di tenere il Paese al passo coi tempi, o meglio.. con gli altri Paesi. Simmetricamente a quanto era avvenuto nella patria di Kelsen e della Costituzione più perfetta ed equilibrata (nella distribuzione bilanciata, o meglio, bilancinata, dei poteri) che sia mai esistita, travolta come un foglio di carta velina dall’avvento del nazismo.
Potenza dell’ideologia!
E puntualmente, di fronte al tentativo di uscire dalla attuale inerzia (che si è arrivati a negare, risolvendo così il problema sul piano concettuale) si è risvegliato il sentimento di conservazione dell’attuale Costituzione con i suoi Governi deboli.
Anche la Corte, dunque, ha ritenuto esistente, più o meno dichiaratamente, un principio costituzionale che privilegia la rappresentatività sulla governabilità, i sistemi elettorali rappresentativi rispetto a quelli maggioritari; anche se non è arrivata a una soluzione manichea, riconoscendo implicitamente che nessuno dei due sistemi può esistere allo stato puro.
Ha quindi espunto dalla legge il ballottaggio fra i due partiti o candidati più votati al primo turno, similmente a quanto avviene in Paesi evidentemente ritenuti meno democratici del nostro, sostenendo che esso altera troppo vistosamente la rappresentanza uscita dalle lezioni (anche se in genere tende a riequilibrarsi fra i vari Collegi)
Fra l’altro ignorando che l’elezione del Sindaco avviene con universale soddisfazione a seguito di ballottaggio e i voti dati al candidato Sindaco non riuscito si trasformano in voti al capo dell’opposizione; in un sistema di poteri comunali accentrati nella figura del Sindaco. Senza dire dei Consigli comunali espressi daglelettori di Comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti.
Rispetto a tale esigenza di assicurare un certo grado rappresentatività la soluzione di cui si è detto non appare però del tutto coerente. Né pare soluzione idonea appellarsi a un principio che faccia dipendere l’omogeneità del risultato elettorale delle due Camere da quella dei sistemi elettorali. Se infatti l’obbiettivo ineludibile è quello di garantire la stessa maggioranza, o comunque omogenea, nelle due Camere è inevitabile che si debba intaccare il principio di stretta rappresentatività, annacquandolo. Ma di quanto? Ove la discrasia sia piuttosto accentuata, che fare? Per assicurare la omogeneità diverrebbe fatalmente necessario alterare vistosamente la rappresentanza uscita dalle urne. Ed è un tantino ottimistico confidare che una tale situazione non si produca; capita, ed è capitato, che una parte consistente dell’elettorato non si esprima per lo stesso partito alla Camera e al Senato; a chi scrive è capitato di non riuscire a votare per lo stesso partito alla Camera e al Senato…neppure turandosi il naso; a meno che chi vota non tenga assolutamente conto dei candidati.
Problemi questi che si aggiungono a quelli più noti, che a seguito del referendum permangono, della diversa base elettorale e della elezione a base regionale del Senato. Che se fosse astrattamente possibile tener conto di ciò nelle leggi elettorali, differenziandole guardando al risultato, non si potrebbe comunque superare il problema anzidetto della libertà di voto difforme fra Camera e Senato.
Tanto più che proprio a sostegno del bicameralismo perfetto si è osservato che esso ha senso solo se la base elettorale delle due Camere non è la stessa (requisito difficilmente identificabile nella differenza di età). Altrimenti tanto varrebbe estendere alla seconda il risultato della prima.
Non è perciò azzardato dire che la conciliazione del principio di rappresentatività con l’esigenza di garantire maggioranze omogenee, o addirittura maggioranza tout court, non parrebbe molto riuscita. Anche se a onor del vero parrebbe impresa impossibile ed è forse merito della Corte essersi cimentata in una siffatta impresa ad alto rischio.
Tanto è vero che lo stesso “bilanciamento” è riuscito meglio nel caso del premio di maggioranza, in ordine al quale tale premio non può raggiungere, neppure ipoteticamente, una consistenza abnorme, dato che in tal caso è sempre possibile un intervento “moderatore” della Corte, invece precluso quando la abnormità dovesse dipendere dalle scelte dell’elettorato. A conferma della posizione assunta nella sentenza 1/2014 che censurava la norma dell’allora vigente legge elettorale proprio perché non prevedeva un tetto minimo di consenso per l’assegnazione del premio di maggioranza, con effetti irragionevolmente distorsivi della rappresentatività.
Sotto questo profilo la non esclusa possibilità che il premio possa essere assegnato a coalizioni di partiti, che potrebbero appunto unirsi soprattutto per conseguirlo, sembra poter risolvere solo parzialmente il problema dell’equilibrio tra rappresentatività e governabilità. Dal momento che non solo la legge elettorale ma, soprattutto, il tessuto politico del pluralismo incidono sugli effetti concreti degli accorgimenti orientati a permettere la governabilità.
E, in quel caso, i conflitti messi da parte in nome del premio potrebbero riesplodere non appena ottenuta la maggioranza parlamentare o nel corso della legislatura. Un fenomeno non ignoto nella più recente esperienza.
Decisamente più apprezzabile appare invece la soluzione del sorteggio adottata per superare il vuoto legislativo derivante dalla illegittimità costituzionale della possibilità di scelta accordata ai candidati eletti in più Collegi. Non vi era infatti alternativa che non comportasse l’assunzione di un ruolo politico da parte della Corte, con invasione della sfera di attribuzioni del Parlamento. Ed altrettanto è a dirsi per la conservazione delle candidature dei capilista cui si imputava di ledere la libertà di scelta degli elettori ignorando che, come ricorda la Corte, tale scelta resta tuttavia garantita dalla reintroduzione delle preferenze. Mentre sulla ragionevolezza del premio di maggioranza fissato al 40% non convince completamente il motivo che ha convinto la Corte della congruità della sua entità in rapporto al principio di rappresentanza di cui si è detto.
Un’ultima considerazione. Si intravede in quanto detto che gli Autori di questo scritto tendono a considerare la pari dignità dei due sistemi elettorali, nel senso che ognuno ha il bello suo e soprattutto che a seconda delle situazioni e delle esigenze ad esse sottese può riuscire buono l’uno oppure l’altro, o persino un loro sapiente dosaggio. Se invece vi fosse qualcuno che, esempi alla mano, volesse dimostrare che il sistema rappresentativo finora sperimentato è stato capace di assicurare la governabilità per quasi un secolo, gli si potrebbe far notare che ciò è avvenuto perché si è riusciti a soddisfare la marcata propensione degli elettori italiani (e degli aspiranti candidati) a far cadere i Governanti (senza alcuna preoccupazione per la loro sostituzione) con la continuità di governo attraverso continui “rimpasti” (in senso sostanziale) che consentivano l’alternanza sempre fra gli stessi partiti e governanti. Una sorta di effetto svalutazione, che valendo come tassa occulta, riesce più gradita o meglio percepita, unito al ben noto effetto gattopardo. E comunque chi è in grado di assicurare che le diverse rappresentanze uscite dalle urne trovino l’accordo per governare rinunciando almeno a una parte delle loro priorità; e che questo non porti invece alla paralisi, come anche di recente è successo?
Non solo, ma come è noto ed universalmente accettato ed indiscutibile per varie ragioni, la democrazia (specie quella diretta, referendaria) comporta che a votare siano in maggioranza persone che non conoscono i problemi se non, e neppure sempre, per sentito dire; con la conseguenza che l’effettivo governo è affidato alla mediazione del rappresentante se questi non è altrettanto ignorante, o peggio in malafede. Nel tempo vi sono stati altri correttivi, ad esempio l’influenza del clero o ancor prima il notabilato (che potrebbe esser visto anche positivamente come un affidarsi di chi si sente incapace di dare un contributo ad altri che stima capace di affrontare i problemi di governo, dello Stato come dei Comuni e così via). Attualmente, invece, le scelte che prevalgono sembrano denotare un’incapacità dell’elettorato che le compie e che sovente le rende reversibili non appena si accorge di subirne le conseguenze negative. Da questo punto di vista è interessante attendere di vedere gli esiti della Brexit o delle elezioni americane e persino di quelle romane, dai risultati sconvolgenti ma non per questo sicura garanzia della bontà delle scelte dell’elettorato che le ha compiute dando fiducia a tesi spesso semplicistiche o opinabili (del tipo, niente di più facile che far funzionare la macchina ecologica della Capitale o arrestare i flussi migratori).
Quanto in conclusione, alle indicazioni per il futuro che dalla sentenza si possono trarre, alcune paiono prevedibili, mentre altre non sembrano potersi condividere.
Si conferma infatti la coerente tutela, entro limiti ragionevoli, del principio di rappresentatività, che deve informare il sistema elettorale, affidata alle scelte delle istituzioni parlamentari.
Sul piano della governabilità, al contrario, come detto, la strada indicata dalla Corte al legislatore si rivela solo parzialmente condivisibile. Se è infatti evidente che non si debbano seguire strade che conducano a risultati contraddittori, non condivisibile è che leggi elettorali omogenee portino a risultati parimenti omogenei.
La Corte, in definitiva, non risolve il problema della governabilità che caratterizza il sistema attuale della forma di governo nazionale per come riemerge, confermato, dalla mancata approvazione popolare della riforma costituzionale. Ne poteva farlo; sempre che non si tratti di un problema irresolvibile.