Se l’Europa chiama, a volte l’Italia risponde
ma a pagare è il diritto di asilo

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di Donatella Loprieno*

Nella riunione del 10 febbraio 2017, il Consiglio dei Ministri, su proposta del neo Ministro dell’Interno Marco Minniti e del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha approvato un pacchetto contenente Interventi urgenti in materia d’immigrazione e di sicurezza urbana.
Ciò che in agosto era una iniziativa legislativa del solo Ministro della Giustizia per l’accelerazione delle procedure amministrative e giurisdizionali in materia di protezione internazionale ha cambiato dunque natura evolvendosi, con poche modifiche, in un decreto legge che include al suo interno ulteriori innovazioni. A scanso di equivoci c’è da premettere che i requisiti di straordinaria necessità e urgenza che dovrebbero caratterizzare il ricorso al decreto legge non paiono esistenti poiché ci si occupa, una volta di più, di questioni strutturali che vanno avanti da anni.

Ora, dei due decreti legge che compongono questo nuovo pacchetto sicurezza, il primo in particolare (quello contenente “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”) desta in chi si occupa della materia più di una perplessità. Non si tratta, però, di un fulmine a ciel sereno. Chi, infatti, ha seguito l’implementazione della Agenda europea sulla migrazione della Commissione europea del 13 maggio 2015 e i rapporti che mensilmente sono stati prodotti in materia di hotspots, ricollocazione e reinsediamento temeva che i continui “richiami” all’Italia in essi contenuti avrebbero prima o poi trovato qualcuno disposto a darvi seriamente seguito.

Nell’Agenda si leggeva che per fronteggiare la sfida delle epocali migrazioni nessuno Stato membro poteva essere lasciato da solo e che bisognava agire con un approccio nuovo, più europeo. Quel “più europeo” avrebbe significato, a fine maggio del 2015, la proposta di attivare il sistema di risposta di emergenza previsto dall’art. 78, par. 3, del TFUE attraverso un meccanismo temporaneo per la redistribuzione delle persone con evidente bisogno di protezione internazionale, sgravando così i paesi maggiormente in prima linea nell’affrontare la pressione migratoria (nella specie Grecia e Italia). In deroga al sistema europeo che, da tempo risalente, vuole che i migranti richiedano protezione internazionale nel primo paese d’approdo e che tenta di inibire ogni cd. movimento secondario, il nuovo meccanismo “più europeo” ha previsto la rilocation ossia il trasferimento dei richiedenti protezione internazionale dal primo Stato di approdo agli altri Stati europei (in base ad un particolare algoritmo).

Chi arriva in Europa, si dice, deve sapere che troverà protezione ma non spetta a lui decidere dove. In particolare, nella Decisione (Ue) 2015/1601 del Consiglio del 22 settembre 2015 si è raggiunto un accordo sulla ricollocazione di 40000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale da Italia e Grecia. La ritrosia (quando non una vera e propria opposizione di principio) dei partner europei ad accettare un simile meccanismo (ad oggi fallimentare per l’esiguità dei migranti ricollocati) è stata cagionata non solo dai rigurgiti nazionalisti e xenofobi qua e là serpeggianti ma anche dal numero non indifferente di migranti che, pur sbarcati sulle nostre coste, hanno preferito allontanarsi dal nostro territorio senza essere identificati per raggiungere altri paesi europei ove evidentemente avanzare la richiesta di asilo. Per ovviare a questa situazione di fatto, avvertita come uno dei principali ostacoli lungo la strada della “ordinata” gestione dei flussi di migranti politici, un nuovo approccio (o metodo) ha fatto capolino ergendosi quasi a panacea degli innumerevoli problemi sollevati dalle migrazioni.

Trattasi dell’approccio cd. hotspots, una metodologia di lavoro nelle aree di sbarco più problematiche di Italia e Grecia (i ventri molli della frontiera europea) ove autorità nazionali e personale delle principali agenzie europee, collaborando, procedono ad identificare, registrare e rilevare le impronte digitali di quanti più migranti possibile. Quasi come un mantra, in ognuno dei rapporti sullo stato di avanzamento dei lavori dell’Agenda si ripete che il metodo hotspot per essere efficace richiede un potenziamento delle capacità di accoglienza delle strutture che ospitano i richiedenti asilo in attesa di ricollocazione, adeguate capacità di trattenere i migranti irregolari prima che sia eseguita una decisione di rimpatrio (allungando i tempi del trattenimento e aumentando i posti a disposizione),  una rapida selezione dei richiedenti asilo, una più solida cornice normativa per il metodo hotspot e in particolare «to allow the use of force for fingerprinting and to include provisions on longer term retention for those migrants that resist fingerprinting» (Communication fron the Commission to the European Parliament and the Council. Progress Report on the Implementation of the hotpots in Italy del 15 dicembre 2015).

Il messaggio degli organi dell’Unione nella sua chiarezza è stato, dunque, inequivoco: la legislazione nazionale dovrà essere modificata in via prioritaria e dovranno essere predisposte tutte le misure operative per garantire che a tutti i migranti siano rilevate le impronte digitali (ricorrendo, se del caso, anche all’uso proporzionato della forza), che i migranti irregolarmente presenti siano immediatamente rimpatriati e ridotti in detenzione amministrativa fino a quando non sono rimpatriati, che le procedure in materia di protezione internazionale siano rese più celeri, efficienti, semplificate, scarnificate. Ridotte, in una parola, all’osso.

Ricostruito, pur se assai sommariamente, l’antefatto al decreto legge “Minniti” or ora approvato, ci pare di poter dire che a volte se l’Europa chiama, l’Italia risponde. Fai i compitini, insomma.

Tra le misure adottate, in particolare, si istituiscono presso 14 tribunali (Bari, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia) sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Nello specifico, le su richiamate sezioni avranno competenza in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio italiano in favore di cittadini UE; di impugnazione del provvedimento di allontanamento nei confronti di cittadini Ue per motivi di sicurezza; riconoscimento della protezione internazionale; mancato rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari; diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari; di accertamento dello stato di apolidia. In tali controversie, il tribunale giudica in composizione monocratica, in contraddittorio solo eventuale con la eliminazione, nella maggioranza dei casi, dell’audizione personale del ricorrente.

Vengono introdotte norme per la semplificazione e l’efficienza delle procedure innanzi alle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e di integrazione dei richiedenti, nonché per la semplificazione e l’efficienza dei procedimenti giudiziari di riconoscimento dello status di protezione internazionale e degli altri procedimenti giudiziari connessi ai fenomeni dell’immigrazione. Si costruisce un nuovo modello processuale basato sul rito camerale che restringe i casi ove si richiede l’udienza orale, con ampio uso di videoregistrazione e prolungamento dei tempi di detenzione amministrativa.  Si riducono da sei a quattro mesi i termini entro i quali si definisce il procedimento con un decreto non reclamabile ma ricorribile esclusivamente in Cassazione. Semplificazione ed efficienza significano, in realtà, stravolgimento della procedura per i ricorsi contro i dinieghi di status di protezione in risposta evidentemente ad una giurisprudenza che dopo le decisioni sfavorevoli delle commissioni territoriali ha riconosciuto lo status di protezione internazionale. Si abolisce il grado di appello che, letto insieme alle altre misure previste per l’accelerazione dell’esame delle domande di protezione internazionale (e dei relativi ricorsi), anche per la difficoltà di proporre un ricorso in Cassazione, sembra depotenziare (se non svuotare del tutto) l’esercizio effettivo del diritto alla difesa di cui all’art. 24 della Costituzione.

Si introducono, infine, misure per l’accelerazione delle procedure di identificazione e per la definizione della posizione giuridica dei cittadini di paesi terzi non appartenenti all’Ue, per il contrasto all’immigrazione illegale e per il traffico dei migranti. Si coglie l’occasione per dare quella copertura legale ai centri hotspot che, infatti, dovranno essere individuati tra quelli destinati alla prima accoglienza. Nei centri saranno effettuate le operazioni di fotosegnalamento, rilevamento delle impronte digitali e registrazione (obbligatorie per gli Stati membri dell’Ue). Chi si rifiuta di rilasciare le impronte digitali sarà trasferito in un centro di detenzione amministrativa in quanto il rifiuto viene ad essere configurato come un rischio di fuga che quel trattenimento legittima.

Ritorna, impetuosa e irrisolta, la questione di come garantire effettività ai provvedimenti di espulsione e del conseguente potenziamento della rete dei centri di identificazione.  Ancora una volta si coglie l’occasione di un decreto legge per modificare il nomen iuris del luogo in cui si consuma la detenzione amministrativa. Dai Centri di permanenza temporanei e di Assistenza, quali erano identificati dall’art. 14 della legge n. 40/1998 che li ha istituiti, in Centri di identificazione ed espulsione in virtù dell’art. 9 del d.l. n. 92/2008, fino agli attuali Centri di permanenza per il rimpatrio. Ulteriore novità è che tali strutture dovranno essere dislocate sull’intero territoriale nazionale. Per quelli di nuova istituzione dovrà essere sentito il Presidente della regione interessata, privilegiandosi siti e aree più facilmente raggiungibili, nei quali siano presenti strutture pubbliche che possano essere riconvertite allo scopo. La capienza, però, dovrà essere limitata e idonea a garantire che le condizioni del trattenimento assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona.

Infine, le nuove norme iniettano nell’ordinamento giuridico una stilla davvero preziosa. I prefetti, d’intesa con i Comuni, promuoveranno iniziative volte a favorire l’impiego dei richiedenti protezione internazionale, su base volontaria e gratuita, nello svolgimento di attività con finalità di carattere sociale in favore delle collettività locali. Questo al fine di favorire l’integrazione dei richiedenti asilo nel tessuto sociale delle località in cui sono ospitati. La previsione sembra riecheggiare l’idea secondo cui occorre prevenire i sentimenti di ostilità nei riguardi dei migranti politici da parte degli autoctoni, palesatesi in alcune occasioni, attraverso una sorta di restituzione alla collettività della graziosa concessione attraverso lavoro gratuito.

Dovremo aspettare l’articolato per meglio comprendere la portata e circoscrivere puntualmente ciò che a primo acchito appare, per dirla con le parole di Gianfranco Schiavone (vice presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione), una proposta irricevibile specie nella parte in cui taglia un grado di giudizio in una materia, quella della protezione internazionale, che afferisce ad un diritto soggettivo fondamentale, tutelato dalla Costituzione e da innumerevoli strumenti giuridici sovranazionali e internazionali. Perché quando parliamo di protezione internazionale, è bene ricordarcelo, abbiamo a che fare con esseri umani che hanno subito persecuzioni, torture, sevizie, discriminazioni intollerabili.

* Ricercatrice di Istituzioni di diritto pubblico, Università della Calabria

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