di Salvatore Curreri
L’improvvido sms inviato dall’ex Presidente del Consiglio Renzi alla trasmissione DiMartedì di Giovanni Floris («Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso. L’unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo») ha contribuito a rinfocolare le polemiche circa l’ipotesi che l’attuale legislatura non venga sciolta anticipatamente per permettere ai parlamentari di poter maturare il diritto a percepire tale c.d. vitalizio.
In caso, infatti, di scioglimento anticipato, i non pochi parlamentari di prima legislatura (402 deputati e 193 senatori: rispettivamente circa il 65 e il 60 per cento del totale; dati openpolis.it), perderebbero tale diritto e, con esso, i contributi versati (stimati in circa 20 milioni di euro), che non verrebbero loro restituiti.
Ma è proprio così? Quella sui c.d. “vitalizi” sarebbe veramente una disposizione, apparentemente interna, ma di contenuto così materialmente fondamentale, ai fini dello scioglimento delle camere, da rientrare a pieno titolo tra quelle che determinano l’identità del nostro ordinamento costituzionale?
Per rispondere a tale domanda, occorre subito precisare che quel che i giornalisti continuano a definire – con comoda ma impropria semplificazione – “vitalizi”, evocando trattamenti pensionistici da nababbi sulle spalle di tutti noi contribuenti, non sono più tali dal 2012.
Prima del 2012, infatti, gli ex parlamentari, al superamento di una certa soglia d’età, percepivano un assegno, detto per l’appunto vitalizio, indipendentemente dai contributi versati (regime retributivo).
A partire dalla corrente legislatura, gli uffici di presidenza di entrambe le camera hanno abrogato tale sistema previdenziale per tutti i nuovi eletti. Costoro, infatti, al termine del mandato, avranno diritto ad una pensione integrativa erogata, come ogni altro pubblico dipendente, in base esclusivamente ai contributi versati al Fondo pensioni rispettivamente di Camera e Senato (metodo contributivo) tramite trattenute (quasi 800 euro al mese, pari all’8,8% dell’indennità parlamentare lorda, a fronte dei quasi 1550 euro versati dalle Camere per ogni eletto).
Secondo quanto dichiarato dal Presidente dell’Inps, Boeri, grazie al passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo la spesa per i vitalizi si è ridotta del 40% (circa 193 mln.)
Tale pensione integrativa viene percepita dall’ex parlamentare non immediatamente al termine della legislatura ma quando avrà compiuto 65 anni, a condizione che abbia svolto cinque anni di mandato parlamentare effettivo. Il limite di 65 anni è diminuito per ogni anno di mandato parlamentare in più rispetto ai cinque minimi previsti (64 anni in caso di sei anni, 63 per sette….) con il limite minimo inderogabile di 60 anni, anche per chi ha alle spalle più di 10 anni di legislatura.
Come per il pubblico impiego (ricordate quando per andare in pensione con venti anni di servizio bastava aver lavorato 19 anni, sei mesi e un giorno?), anche per il parlamentare i cinque anni di legislatura si compiono dopo aver svolto il mandato per quattro anni, sei mesi ed un giorno. Ciò per evitare che i cinque anni non siano considerati raggiunti nel caso in cui la legislatura sia sciolta, per problemi “tecnici”, qualche settimana o mese prima.
Si tratta, quindi, di qualcosa molto simile alle rendite assicurative private perché dirette ad assolvere una funzione assistenziale e previdenziale. Come tali, tali pensioni integrative sono diverse dalle indennità che, secondo l’art. 69 Cost. spettano ai parlamentari per garantire loro, specie ai meno abbienti, la possibilità di accedere in Parlamento e di svolgere liberamente il mandato parlamentare. Tant’è che, a differenza delle indennità, sono sequestrabili e pignorabili su iniziativa dei creditori; possono essere revocate retroattivamente se l’ex parlamentare è condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi, specie quelli contro la pubblica amministrazione, eccezion fatta per l’abuso d’ufficio (v. delibere delle Presidenze di Camera e Senato del 7 maggio 2015); infine, non trattandosi di pensioni pubbliche, non possono essere assoggettate a contributi straordinari di perequazione (C. cost. 116/2013).
Tutto ciò dimostra che quando si parla di “vitalizi” parliamo di rendite pensionistiche – dai 500 ai 1000 euro circa al mese – di cui i neo parlamentari di questa legislatura avranno diritto a partire dal 65° anno d’età.
In tempi come gli attuali di feroce antipolitica, è comprensibile che alcuni ritengano una tale somma – per quanto lontana nel tempo – così determinante da blindare in tal modo le sorti della legislatura. E del resto, parafrasando il divo Giulio i più “pensano male” perché “convinti d’azzeccarci”.
Altro è, invece, che una simile ipotesi sia formulata da chi voglia così accordarsi alla polemica grillina contro la casta e i suoi privilegi.
Perché alle copie si preferisce sempre l’originale.
1 commento su “A proposito dei “vitalizi” ai parlamentari”