di Francesco Monceri *
L’esperienza recente consente di mettere in luce una problematica inedita che attiene alla fase sub-procedimentale che si può eventualmente innescare a seguito del mancato raggiungimento della maggioranza parlamentare dei 2/3 richiesta dall’art.138 della Costituzione per l’immediata entrata in vigore delle riforme costituzionali. Fase che, al raggiungimento della sola maggioranza assoluta, associa la possibilità di consentire al popolo di esprimersi in via definitiva sulla desiderabilità della riforma attraverso un referendum della cui natura, confermativa o oppositiva, si discute in dottrina.
La questione che si intende qui sollevare, attiene al rapporto tra maggioranza richiesta per l’approvazione della riforma costituzionale, previsione del referendum, e sistema elettorale vigente. Tale questione riguarda gli effetti distorsivi del premio di maggioranza sulla tendenziale identità tra maggioranza assoluta parlamentare e maggioranza degli elettori che hanno sostenuto i partiti che quella maggioranza compongono.
Invero, il sistema disegnato nell’art.138 Cost. ha una sua logica in qualsiasi sistema elettorale si metta in campo. Sia di tipo proporzionale che maggioritario, e con eventuali clausole di sbarramento.
Funziona, ovviamente con il maggioritario, in quanto se un partito o una coalizione dovesse ottenere la maggioranza assoluta dei voti del popolo, tale maggioranza si ripropone nei gruppi parlamentari. Se, infatti, tanti gruppi o al limite il solo gruppo di maggioranza, sostiene la riforma costituzionale esiste un’identità tra quei rappresentanti del popolo e la maggioranza degli elettori che li ha sostenuti. Appunto la maggioranza assoluta degli elettori.
Allo stesso modo, in un sistema proporzionale anche puro, se tanti gruppi parlamentari sostengono la riforma costituzionale sino a raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato, quella maggioranza è specchio di una forza che trova riscontro nel corpo elettorale che si è espresso alle precedenti elezioni politiche.
Così, in tutti i casi, la scelta di sottoporre a referendum popolare il contenuto della riforma servirebbe a misurare la persistenza del rapporto maggioranza parlamentare/elettori; una ulteriore garanzia a tutela della rigidità costituzionale. Il referendum in questione sarebbe, dunque, oppositivo nel senso che almeno tendenzialmente è richiesto da chi voglia sollecitare l’elettorato contro la riforma, e confermativo se guardato dal punto di vista di chi voglia conferme non solo sul testo della riforma ma anche sulla persistenza della maggioranza elettorale. Ne è riprova il fatto che, giocando d’anticipo, nell’ultimo caso il referendum è stato richiesto dalle forze che avevano sostenuto la riforma.
Ciò che però più conta è che, in un sistema siffatto, almeno in linea di principio, le forze politiche che hanno ottenuto la maggioranza assoluta sulla riforma sembrano partire in vantaggio anche nella sfida referendaria.
In presenza del premio di maggioranza questa situazione, perlomeno attesa, si capovolge.
Già introdotto dalla legge Acerbo del 1923, in un sistema che ovviamente non prevedeva la revisione costituzionale per come oggi la conosciamo, il premio di maggioranza viene riproposto nel 1951 per i comuni con più di 10.000 abitanti e con la legge elettorale del 1953 (legge truffa) che tuttavia lo istituiva per partiti o colazioni che comunque avessero raggiunto la maggioranza assoluta alle elezioni, forse generando problemi diversi per la revisione costituzionale ma non quello di cui si va discutendo. Ciononostante in quel caso il premio non fu poi attribuito.
Dopo la sua abrogazione, il premio di maggioranza torna nella legge comunale e provinciale del 1993, nella legge Tatarella del 1995 per le elezioni regionali e, ai nostri fini, con la legge Calderoli del 2005. Tale legge introduce la novità, che si intende meglio esplorare in ordine alle conseguenze che determina sull’art.138 Cost., consistenti nel fatto che il premio di maggioranza viene assegnato alla coalizione, indipendentemente dal raggiungimento della maggioranza assoluta.
Con questo sistema il premio si assegna su base nazionale a chi consegue la maggioranza anche solo relativa alla Camera dei deputati, e per il Senato della Repubblica a chi consegua la maggioranza anche solo relativa nelle singole regioni.
Le vicende che hanno interessato queste disposizioni, culminate nella declaratoria di incostituzionalità del 2014 della legge Calderoli e nella successiva legge elettorale del 2015 che assegna il premio alla lista che abbia superato almeno il 40% delle preferenze, interessano solo marginalmente la presente riflessione in quanto attengono al perenne confronto tra l’esigenza della governabilità ed il principio di rispetto del voto popolare che affligge le forme di governo a debole razionalizzazione soprattutto nei contesti non bipartitici o bipolari. Così come la previsione di un eventuale ballottaggio tra le prime due forze in campo non sposta i termini del discorso, anzi lo conferma, in quanto la forza elettorale del partito o della coalizione che risulterà prevalente nel ballottaggio si misura, tendenzialmente, col risultato ottenuto al primo turno.
Ciò che conta è che a partire dal 2005, l’introduzione di un premio di tale portata, ossia indipendente dal raggiungimento della maggioranza assoluta nelle elezioni politiche, genera conseguenze di non poco conto.
Ciò si mostra estremamente rilevante rispetto al procedimento anomalo disegnato per la revisione costituzionale dall’art.138 Cost. per la fase sub-procedimentale in cui la maggioranza assoluta parlamentare si confronta con la volontà popolare.
Laddove, infatti, in precedenza era legittimo attendersi che tale maggioranza conservasse pari consistenza al di fuori del Parlamento, nel popolo, col premio di maggioranza può accadere che sia lecito attendersi l’esatto contrario.
Poniamo che una coalizione che abbia raggiunto il 30% del consenso o anche, come potrebbe accadere per l’effetto dell’indicazione provenienti dalla Consulta, il 40%, si trovi costretta ad approvare da sola una riforma costituzionale poiché non trovi nessuna altra forza politica disposta ad appoggiare l’intento riformatore.
In questo caso, per l’effetto del premio di maggioranza, quella forza politica riuscirebbe ad ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento (poniamo che la situazione risulti simile all’interno della Camera e del Senato) ma, diversamente da prima, sarebbe in qualche modo una maggioranza fittizia perché “drogata” dal premio di maggioranza. In questa situazione, la seconda fase, più certa che eventuale, si mostrerebbe senz’altro molto più interessante per i partiti di minoranza, in quanto la situazione attesa in assenza del premio risulterebbe del tutto capovolta.
Senza premio i partiti che sostengono la riforma hanno senz’altro conseguito alle elezioni politiche il 51% dei voti regolarmente espressi, nel secondo caso hanno sicuramente ottenuto qualcosa (o tanto) meno della maggioranza assoluta.
Posto il caso di scuola fatto di una coalizione al 40%, il gap reale di partenza assommerebbe a 20 punti di scarto che, anche a non voler considerare il voto referendario come un voto politico e accettando tutte le altre obbiezioni all’assunto proposto, pare decisamente elevato. Una partenza ad handicap significativo.
Ne discende che in situazioni di questo genere la riforma pare destinata a naufragare ogni qual volta il premio di maggioranza abbia causato effetti molto distorsivi del voto reale. Uno strumento di garanzia attraverso cui le minoranze erano ammesse, in sostanza, a sollecitare il corpo elettorale a “mutare opinione” assume repentinamente il ruolo di svelare l’inconsistenza di una maggioranza parlamentare tale solo per l’effetto delle norme che mirano a garantire la governabilità.
La deviazione dallo schema dell’art. 138 Cost. è evidente poiché, in tali situazioni, per condurre a compimento una riforma costituzionale risulterebbe sempre necessario il coinvolgimento delle minoranze mentre la norma prevede, al contrario, che per modificare la Costituzione sia sufficiente la sola maggioranza assoluta, ossia, potenzialmente, la partecipazione della sola maggioranza di Governo.
Sebbene sia alquanto difficile avventurarsi nella valutazione dei risultati delle consultazioni popolari, e non si intende farlo, pare tuttavia potersi affermare che il problema si sia presentato, complice le limitate ipotesi di ricorso all’istituto del referendum confermativo/oppositivo solamente nel 2006 e nel 2016. In tutti e due i casi l’articolata riforma costituzionale promossa dal Governo in carica è stata bocciata (mentre nel 2001 in assenza del premio di maggioranza la riforma ha trovato conferma nel voto popolare).
Ma non è solo questo che conferma quanto si sta sostenendo. Nel primo caso, infatti, il sostanziale bipolarismo che caratterizzava il sistema aveva fatto sì che l’equilibrio tra le forze politiche antagoniste riducesse la distanza dal raggiungimento del 51% dei votanti da parte della coalizione prevalente. E’ l’esperienza recente che rende particolarmente attuale il problema, ossia la subitanea ed inaspettata virata verso una situazione tripolare. La presenza di tre grandi schieramenti che più o meno si equivalgono ha aumentato il peso del premio di maggioranza. Ha aumentato lo scollamento tra rappresentanza parlamentare e forza elettorale.
Rispetto al procedimento dell’art.138 Cost., le forze politiche che hanno sostenuto la riforma costituzionale recentemente bocciata in sede referendaria avevano i mezzi per approvarla in Parlamento con la maggioranza assoluta, ma tale maggioranza non aveva riscontro reale nel Paese, così che si è incrinato il presupposto sul quale l’elaborazione dell’art.138 Cost. implicitamente si fonda, ossia che il corpo elettorale sia chiamato a “confermare” la scelta di un partito o di una coalizione precedentemente sostenuti con risultati maggioritari.
Il fatto che l’esito del recente referendum abbia più o meno confermato la rilevanza elettorale delle forze in campo, in cui la coalizione di maggioranza si attesta ben al di sotto del 50% del consenso elettorale convince che, in casi analoghi, sarà molto difficile che una riforma costituzionale invisa alle minoranze possa vedere la luce nonostante il voto positivo parlamentare. Diversamente da quanto poteva essere prevedibile dal Costituente che costruiva il procedimento di revisione costituzionale in un contesto sistemico completamente diverso. Un problema di non poco conto se sol si considera che è pressoché unanime l’idea che la Costituzione necessiti di essere riformata.
Ciò che si può, dunque, offrire al dibattito, in un momento in cui proprio l’istituto del premio di maggioranza è al vaglio della Consulta per problemi connessi alla sua democraticità, sono gli evidenti problemi che esso riversa anche sul procedimento di revisione costituzionale, andando ad incrinare la tendenziale identità tra maggioranza parlamentare e volontà maggioritaria del popolo.
Tuttavia, l’obbiettiva necessità di assicurare la governabilità sconsiglia un pedissequo ritorno a sistemi elettorali forse più rispondenti all’idea del Costituente ma incapaci di dare stabilità ai governi o, addirittura, di formarli.
In conclusione, l’esigenza di non paralizzare i naturali processi di riforma della Costituzione, induce allora a ritenere che si debba muovere proprio dal ripensamento del procedimento imposto per la sua revisione.
*Dottore di ricerca e docente esterno di Istituzioni di diritto pubblico-Università di Pisa