Il “salva risparmio” o salva banche:
il tempo sprecato e il debito pubblico

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10salva-banche-roma2016di Chiara Bergonzini

Il 10 gennaio 2017 è iniziato, in Commissione Finanze del Senato, l’iter di conversione del decreto-legge n. 237 del 2016 (AS 2629), noto come “il salva risparmio”.

Per quanto riguarda il merito, la Commissione ha già in programma le audizioni del  Ministro dell’economia e a seguire di Banca d’Italia, Consob, ABI e rappresentanti di BCE, nonché della dirigenza di Monte dei Paschi di Siena, dopo le quali si vedrà se il testo sarà modificato o – com’è probabile – ratificato seguendo le indicazioni del Governo. Il termine per gli emendamenti in Commissione è fissato, per ora, al 24 gennaio e solo alla scadenza sarà possibile avere un quadro almeno parziale dell’orientamento dei gruppi parlamentari. Ma il problema non è il testo del decreto.

Certo, dovrebbe esserlo: è evidente che una decisione che crea un fondo di 20 miliardi di euro (art. 24 del decreto) per far fronte alle difficoltà di alcune delle principali banche italiane rappresenta un passaggio fondamentale per l’economia dell’intero Paese. D’altra parte, è altresì noto che diversi altri Stati (gli USA, per fare l’esempio più noto) hanno affrontato situazioni del genere, con qualche anno di anticipo rispetto all’Italia. Pertanto, se il problema fosse solo (si fa per dire) quello di individuare uno scudo pubblico al rischio di dissesto bancario, resteremmo tutto sommato nell’ambito della gestione di un periodo di crisi economico-finanziaria, che ben può comprendere una drastica revisione della disciplina del sistema creditizio.

Invece, la vicenda del “Salva Risparmio” ribadisce alcuni problemi di fondo che, pur esacerbati dalla crisi economica, derivano in realtà dal funzionamento ormai patologico della democrazia parlamentare italiana.

Il primo problema è la tempistica. Come era facilmente prevedibile (vedi il mio scritto precedente), alla frettolosa chiusura della legge di bilancio è seguita, il 23 dicembre, l’emanazione del decreto. Al netto delle considerazioni tecniche sul sovvertimento del sistema delle fonti (secondo l’art. 77 Cost. il decreto-legge dovrebbe essere riservato ai casi straordinari di necessità e urgenza), il risultato concreto è che la funzione legislativa si esaurisce così una mera rincorsa delle scadenze. Si potrebbe obiettare che non è una novità, e sarebbe vero: da almeno dieci anni, nella dilagante sciatteria delle procedure parlamentari, la decretazione d’urgenza è diventata l’unico veicolo normativo per la soluzione dei problemi, soprattutto economici (e i risultati sono sotto gli occhi di tutti).

Ma nella vicenda del “Salva Risparmio” si è raggiunto il paradosso, perché il decreto, presentato alla Camera dei deputati il giorno stesso della pubblicazione in G.U. (23 dicembre), è poi stato ignorato fino al 30 dicembre, quando la Camera l’ha restituito al Governo, il quale l’ha poi ripresentato al Senato (qui il testo: attenzione all’asterisco), che però ne ha iniziato l’esame solo il 10 gennaio.

Già questo rimbalzo da una camera all’altra risulta, almeno a chi scrive, inedito, e suscita più di qualche perplessità; se poi a ciò si aggiunge che il decreto scade il 21 febbraio, si ottiene che le Camere hanno sprecato ben 17 dei 60 giorni utili per la conversione. In assenza di spiegazioni ufficiali (non vi è traccia di verbali), e rifiutando l’idea che a giustificazione valgano le vacanze di Natale, l’unica motivazione ipotizzabile è ovviamente politica: la maggioranza, a fine anno, ha deciso di “sgombrare” il calendario dei lavori della Camera, inviando tutto “il sospeso” al Senato (che ha all’esame anche il c.d. Milleproroghe), probabilmente per consentire l’avvio dell’esame della legge elettorale. Il che sarebbe quantomeno indicativo delle priorità della classe dirigente.

Il secondo problema che emerge dalla vicenda del “Salva Risparmio” riguarda la modalità di gestione dei fondi pubblici. E non si intende qui citare il ritornello per cui “non si trovano i soldi per scuola/sanità/sicurezza ecc., ma per le banche sì”, che è in parte vero, ma riflette una scelta squisitamente politica e dovrebbe quindi chiamare in causa la relativa responsabilità. L’allarme deriva piuttosto da una considerazione, ricorrente nei dibattiti parlamentari (a partire dagli interventi di Governo e relatori) sul tema, in merito alle ricadute del decreto sui saldi di finanza pubblica, cioè gli ormai famosi “parametri” valutati in sede europea.

Occorre premettere che per poter emanare il decreto il Governo ha dovuto chiedere, tra il 20 e il 21 dicembre scorsi, l’autorizzazione al Parlamento (art. 6 della l. n. 243 del 2012), dato che i fondi per il “salvataggio” delle banche dovranno essere reperiti «attraverso operazioni di emissione di titoli del debito pubblico» (cfr. la relazione del Governo, p. 5, qui). Ora, per motivi contabili che non è necessario approfondire (basti dire che si tratta di misura una tantum, che pertanto non dovrebbe essere considerata ai fini della verifica degli obiettivi strutturali di bilancio concordati con l’UE), se anche si dovesse far ricorso all’intera somma autorizzata (20 miliardi), essa non dovrebbe pesare nelle valutazioni della Commissione europea, e questo ci dovrebbe mette al riparo dalle “sanzioni” previste per chi non rispetta gli impegni.

Da questo punto di vista, Governo e relatori hanno fornito ampie rassicurazioni (cfr. resoconti delle sedute del 21 dicembre della Camera e del Senato), proiettate però sul brevissimo periodo, dato che si riferiscono solo alle valutazioni che la Commissione europea svolgerà nella prossima primavera.

È quindi a dir poco singolare che in tutti i dibattiti parlamentari l’accensione di nuovo debito, dopo le rassicurazioni di cui sopra, venga sostanzialmente trascurata. E questo atteggiamento è allarmante perché evidenzia come – nonostante la crisi e gli effetti della speculazione finanziaria del 2011 sullo spread dei titoli italiani, con tutte le note conseguenze, nonostante quasi 10 anni di dibattiti, riflessioni e approfondimenti sul tema – i parlamentari italiani non abbiano ancora reale contezza del vero problema dei nostri conti pubblici, che è proprio il mostruoso ammontare del debito e i conseguenti costi per gli interessi, che ammontano a oltre 80 miliardi di euro per ogni anno.

A scanso di equivoci: non è il ricorso al debito, di per sé, a suscitare inquietudine, ma il fatto che esso finisca per rappresentare una sorta di ultima spiaggia prima della catastrofe. Perché se la catastrofe e l’emergenza derivano da colpevoli ritardi nell’azione politica, che si sviluppa solo per atti urgenti, è esattamente qui che i due problemi si sommano, in un (enorme) problema di democrazia.

 

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