Il punto sulle Province: vanno al voto per i consigli,
ma sono indebolite dai tagli

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di Roberto Bin

In questi giorni si svolgono le elezioni di metà dei Consigli provinciali (per i dati precisi clicca qui) e naturalmente questa è l’occasione per il riaccendersi delle polemiche sulle Province. Ma non dovevano essere abolite? Perché si è sottratta al voto popolare l’elezione dei loro organi?

Perché nessuno esercita più le funzioni provinciali, la gestione delle strade e delle scuole superiori in particolare?Che ne è delle Province dopo che è stata bocciata dal referendum la riforma costituzionale che le voleva abolire?La storia delle Province è davvero singolare. Sono state introdotte dalla legislazione sabauda come livello decentrato dell’amministrazione centrale dello Stato, con il preciso compito di porre sotto controllo del Governo le amministrazioni comunali, pericolosamente democratiche. La Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 1865 faceva del prefetto l’organo di vertice della Provincia, destinato a rafforzare il proprio ruolo con il fascismo.

Appena nel 1951 gli organi politici della Provincia ritornano ad essere eletti democraticamente: durante i lavori dell’Assemblea costituente, le sorti delle province sono state precarie, perché forte era l’opinione che esse dovessero sparire e trasformarsi in un consorzio tra Comuni o in circoscrizioni di decentramento dell’amministrazione regionale. All’ultimo si salvarono. Ma quando nel 1970 furono istituite le Regioni esse cercarono di sostituire le province con i comprensori, associazioni tra Comuni destinati a costituire l’ente intermedio tra Comuni e Regione: il progetto fallì perché le Regioni non potevano eliminare un ente istituito e disciplinato dallo Stato e previsto in Costituzione.

Va tenuto presente che l’avvento delle Regioni non comportò alcuna modifica nell’organizzazione dell’amministrazione pubblica centrale e periferica ereditata dall’unificazione del Regno d’Italia e dal fascismo. L’impianto tradizionale del sistema amministrativo italiano sembra costruito apposta per impedire qualsiasi razionalizzazione delle sue articolazioni territoriali, perché era costruito come una struttura monoblocco dell’amministrazione pubblica, una gerarchia con il Governo al vertice e i Comuni alla base.

Il ruolo delle Province in questa piramide gerarchica è evidente, perché sono anzitutto ripartizioni dell’amministrazione dello Stato, di quella storicamente connessa alle funzioni più tipiche dell’esecutivo: l’ordine pubblico (questure, comandi provinciali dei carabinieri, strutture di protezione civile) e il fisco (intendenze di finanza). Siccome i Comuni sono un capillare con cui il sistema burocratico comunica con il sistema democratico, a livello di Provincia si era organizzato anche l’apparato di controllo (anche politico, in passato) sulle attività dei Comuni (le Giunte provinciali amministrative). Tutto ciò si organizza attorno al prefetto, che del Governo è il rappresentante.

L’avvento delle Regioni ha creato una struttura politico-amministrativa su tre livelli (Comuni-Province-Regione), i cui organi sono tutti eletti democraticamente. La Regione fa le leggi e gli atti di programmazione generale, i Comuni amministrano, e le Province? A loro competono alcune funzioni amministrative “di area vasta” (rifiuti, trasporti, strade, edilizia scolastica…) e funzioni di coordinamento dei comuni. Mentre l’esercizio di nessuna di queste funzioni sembra richiedere un livello politico a cui far risalire la responsabilità decisionale (alcune ormai sono esercitate attraverso agenzie o sono affidate a società di gestione), la copresenza di tre livelli di rappresentanza politica sul territorio regionale, con competenze che spesso si sovrappongono, crea zone di competizione politica che alimentano la complessità delle procedure amministrative. La stessa logica del sistema politico ha facilitato la diversità di “colore politico” tra il governo provinciale e quello del Comune capoluogo, talvolta anche con l’attribuzione delle cariche a formazioni diverse nell’ambito della stessa coalizione. Se alla sovrapposizione di competenze amministrative si somma la competizione politica tra i soggetti che ne sono investiti, l’inefficienza è il risultato assicurato.

Su questa situazione interviene, con la scusa dell’impellente necessità di risparmio finanziario, il Governo “tecnico” di Monti: e interviene con le peggiori modalità tecniche immaginabili. Il decreto-legge 201/2011, in alcuni commi (dal 14 al 20) di un suo articolo (l’art. 23), compie una svolta storica, abbandonando il modello tradizionale di ente provinciale “politico” per abbracciare il modello di ente che esercita solo funzioni di coordinamento delle attività dei Comuni, dai quali dipende la formazione degli organi, non più eletti direttamente di cittadini. E poi il decreto-legge 95/2012, che in uno dei suoi 25 articoli dedicati alla spending review, introduce la previsione shoccante che sia il Governo a deliberare, su proposta dei ministri interessati (interno e pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze), il riordino delle province sulla base di requisiti minimi relativi alla dimensione territoriale e alla grandezza demografica.

Queste brillanti idee riformatrici sono state frustrate dalla sent. 220/2013 della Corte costituzionale, che ha ovviamente affermato ciò che qualsiasi “tecnico” avrebbe dovuto sapere: che riforme di questo tipo non possono essere fatte attraverso decreto-legge. Per rimediare alla situazione creata dalla sentenza, il Governo Letta ha iniziato un procedimento di riforma legislativa che è stato poi completato dal Governo Renzi con la c.d. legge Delrio (legge 56/2014), la cui approvazione è stata “forzata” con il voto di fiducia posto su un maxi-emendamento: la conseguenza è un testo illeggibile, un unico articolo con 151 commi.
La legge conferma l’elezione di secondo grado degli organi delle Province (sindaco e consiglieri), eletti cioè dai consigli comunali. Le funzioni fondamentali della Provincia restano quelle “storiche”, che riguardano la pianificazione territoriale di coordinamento, la tutela e valorizzazione dell’ambiente, la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, la costruzione e gestione delle strade provinciali e la regolazione della circolazione stradale ad esse inerente, la programmazione provinciale della rete scolastica, la gestione dell’edilizia scolastica e poche altre cose. Tutte funzioni che non implicano una “investitura politica” degli organi, essendo forme di coordinamento di attività comunali. Spetta però alla legge regionale (e a quella statale) il riordino delle funzioni e del personale già affidate alle Province, che in parte devono essere assegnate ai Comuni, in parte alle Regioni stesse.

In questa fase transitoria, già di per sé piuttosto confusa (si deve tenere conto anche delle Città metropolitane istituite sulla base della stessa Delrio, che assorbono le province delle città più popolose), si abbatte anche la mannaia dei tagli finanziari. Come riporta il Corriere della sera, dopo la “Delrio” la finanziaria 2015 stabilì un taglio di un miliardo (750 milioni a carico delle Province e 250 delle Città metropolitane), cui si aggiungeva un altro miliardo nel 2016 e un altro ancora nel 2017.Il presidente dell’UPI (Unione delle province italiane) ha segnalato in dicembre, in una lettera al Presidente della Repubblica, il rischio che le Province non possano predisporre i bilanci per il 2017. Lasciare le funzioni ad un ente e non finanziarle è cosa che non si può fare. Lo ha confermato anche la Corte costituzionale che in una sentenza di poco tempo fa (sent. 188/2015) ha per la prima volta dichiarato illegittime le previsioni di un bilancio (nel caso, della Regione Piemonte) “nella parte in cui non consentono di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite dalla legge”.

Qualcuno dei 120.000 chilometri di strade e delle 5.000 scuole superiori si deve pur fare carico.

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