di Giovanni Di Cosimo
I due assi principali della riforma, ovvero superamento del bicameralismo paritario e rimodulazione dei rapporti fra Stato e regioni, occupano uno spazio ben diverso nel convulso dibattito di questi giorni.
Molto si discute del Senato, meno delle regioni. Eppure, nel disegno della riforma i due temi sono strettamente legati, visto che la riduzione delle competenze legislative delle regioni dovrebbe essere compensato dal loro ingresso al Senato e quindi dalla possibilità di partecipare al procedimento legislativo statale. Col risultato, auspicabile e auspicato, di un sostanziale calo del contenzioso, giacché le regioni – alle quali spetterà applicare quelle leggi sul territorio – non dovrebbero impugnarle davanti alla Corte costituzionale, avendo concorso ad approvarle.
Uno degli aspetti più controversi del secondo asse è la diversa sorte riservata alle regioni ordinarie e a quelle speciali. Mentre la rimodulazione dei rapporti fra la legge statale e quella regionale e le altre previsioni del capo IV della legge di revisione (per esempio, l’abolizione delle province) valgono per le regioni ordinarie dall’entrata in vigore della riforma nella prossima legislatura, per quelle speciali ciò potrebbe accadere solo in un momento successivo. Il condizionale è d’obbligo perché l’estensione è condizionata alla revisione degli statuti speciali che, a sua volta, è subordinata alla previa intesa con la regione interessata. In altre parole, la modifica degli statuti speciali non si farà fintanto che le regioni speciali non saranno d’accordo, con la conseguenza che la rimodulazione le riguarderà soltanto dopo la modifica degli statuti.
Oltre a ciò, la riforma estende alle regioni speciali l’attuale disposizione costituzionale, che finora riguardava solo le regioni ordinarie, secondo cui alla regione possono essere concesse “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (è il terzo comma dell’art. 116). Veramente l’operazione è più complessa, perché contemporaneamente la riforma: a) modifica il testo di questa disposizione, introducendo, fra l’altro, la condizione che la regione “sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”; b) stabilisce che il testo modificato si applichi subito alle regioni ordinarie e soltanto in seguito a quelle speciali. Pertanto le regioni speciali beneficeranno dell’attuale versione dell’articolo fino alla modifica degli statuti (ma non per alcune delle materie alle quali l’articolo si riferisce), dopodiché si applicherà la nuova versione. Un marchingegno un po’ complicato, che sembra pensato nella consapevolezza che la modifica degli statuti potrebbe tardare per molto tempo.
Insomma, fino a quando gli statuti speciali non saranno modificati, e dunque per un periodo che potrebbe essere anche lungo, le regioni speciali: a) non subiranno la riduzione delle competenze legislative (e quindi, sembrerebbe, potranno continuare ad approvare leggi nelle materie concorrenti che la riforma cancella) e neanche l’abolizione delle province; b) nondimeno entreranno fin da subito nel Senato; c) avranno la possibilità di aumentare la loro autonomia.
C’è poi la questione del rapporto fra la revisione costituzionale e gli statuti speciali. In particolare, gli statuti prevedono l’incompatibilità fra il ruolo di consigliere e quello di parlamentare, mentre la riforma prevede che alcuni consiglieri saranno contemporaneamente senatori. Il contrasto si risolve sulla base del principio secondo cui la disposizione più recente abroga quella precedente. Siccome lo statuto delle regioni speciali è una legge costituzionale per la cui modifica serve il procedimento previsto dall’art. 138 della Costituzione per le leggi costituzionali, la contraddizione si risolve ritenendo che la riforma, approvata in forza dell’art. 138, abroghi le precedenti disposizioni statutarie che prevedono l’incompatibilità. Certo, sarebbe stato meglio dirlo chiaramente, considerato fra l’altro che proprio la riforma introduce il principio per cui le leggi vanno modificate espressamente (nel nuovo art. 70 primo comma in relazioni alle leggi bicamerali).
Meno facile da risolvere è un altro problema interpretativo. Gli statuti speciali prevedono che i progetti di modifica del testo debbano essere sottoposti entro due mesi al parere del Consiglio regionale. Siccome ciò non è avvenuto, si deve pensare che la riforma abroga anche questa previsione degli statuti, che quindi non si applicherà più in futuro? Oppure semplicemente la disapplica, e quindi resta in vigore per il futuro?