Il prossimo 5 dicembre, la commissione Commercio Internazionale (INTA) del Parlamento Europeo è chiamata a votare il testo del trattato di libero scambio tra UE e Canada, il cosiddetto CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement).
di Giacomo Menegus e Marta Nalin
Successivamente, l’accordo sarà sottoposto alla ratifica finale dell’assemblea plenaria del Parlamento (presumibilmente il 14 dicembre) e, salvo imprevisti, il CETA entrerà provvisoriamente in vigore già dal 2017.
Tuttavia, appena qualche settimana fa l’accordo pareva destinato a fallire ad un passo dalla sua firma: la piccola Vallonia, regione francofona del Belgio, guidata dal ministro-presidente Paul Magnette aveva infatti sollevato diverse riserve rispetto ai contenuti del trattato e si era rifiutata di dare il proprio via libera alla firma del Belgio. Per due infuocate settimane, Magnette e i suoi irriducibili valloni sono stati investiti dalle fortissime pressioni da parte di mezza Europa; persino il ministro per il commercio estero canadese, Chrystia Freeland, dopo giorni di tensione, ha tentato una mediazione con la Wallonix (come l’ha soprannominata il quotidiano francese Libération, facendo chiaro riferimento al villaggio gallico di Asterix ed Obelix), ma la sua visita lampo a Namur non ha ottenuto i risultati sperati.
Solo alla fine di estenuanti e convulse trattative la piccola regione belga ha deciso di firmare. (Qui il video del discorso del ministro-presidente al Parlamento vallone – in francese https://www.youtube.
Andiamo a vedere di che si tratta.
Innanzitutto, cos’è il CETA?
Il CETA è il trattato di libero scambio negoziato tra Unione Europea e Canada tra il 2009 e l’agosto 2014 (link al sito del CETA http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ceta/index_it.htm ).
Gli obiettivi dichiarati dei promotori dell’accordo sono quelli di eliminare i dazi doganali, porre fine alle restrizioni nell’accesso agli appalti pubblici, aprire il mercato dei servizi, garantire condizioni prevedibili agli investitori e prevenire la circolazione di copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’UE. Il tutto attraverso un processo di convergenza normativa che dovrebbe vedere i legislatori delle due parti operare in un regime di cooperazione regolatoria.
Secondo i suoi fautori, l’accordo potrà assicurare alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e favorire la creazione di nuovi posti di lavoro in tutta Europa.
Una prima critica al trattato è arrivata per la scarsa trasparenza e pubblicità dei negoziati, svoltisi quasi in segreto e con modalità analoghe a quelle adottate per l’altro grande trattato di libero scambio, il TTIP. Inoltre, si teme che il CETA potrebbe comportare, proprio in ragione della riduzione dei limiti e delle regole per le aziende, una drastica diminuzione degli standard europei in tema di sicurezza alimentare, diritti dei lavoratori, tutela dell’ambiente e incidere negativamente sull’occupazione europea. Infine, molte perplessità ha destato l’opaco sistema di risoluzione delle controversie tra Stati e imprese (ICS – Investor Court System) il quale, secondo i detrattori dell’accordo, penderebbe tutto a favore delle grandi multinazionali.
Perché la Vallonia ha il potere di bloccare la firma dell’accordo?
Il CETA è stato riconosciuto dal Consiglio UE come accordo internazionale di tipo misto, un trattato che incide cioè anche su materie di competenza non esclusiva dell’Unione Europea e, pertanto, dev’essere approvato non solo dal Consiglio UE e dal Parlamento UE, ma anche dai Parlamenti dei singoli Stati membri. La Costituzione federale belga prevede, a sua volta, che per aderire a tali accordi il Belgio debba ottenere l’adesione dei Parlamenti federati, tra i quali vi è appunto quello vallone.
Il governo italiano aveva sostenuto con forza la competenza esclusiva dell’Unione europea, anche al fine di escludere alla radice l’intervento dei parlamenti nazionali nel processo di approvazione dell’accordo, ma è prevalsa la linea contraria.
Cosa ha ottenuto la Vallonia?
Partiamo dalle “dichiarazione interpretative”: si tratta di clausole aggiunte all’accordo che, pur non facendone parte, si considerano giuridicamente rilevanti alla stregua di una disposizione dell’accordo stesso, vincolandone così l’interpretazione in caso di disputa tra le parti.
Come si è detto, la Vallonia ha ottenuto l’introduzione di tre dichiarazioni interpretative, nelle quali, in primo luogo, si è affermato che il CETA non potrà incidere sulle politiche perseguite dalle istituzioni democratiche dei singoli Stati in tema di salute, ambiente, eduzione pubblica, servizi sociali, ecc. e, ovviamente non potrà comportare un abbassamento degli standard europei raggiunti in tali settori. In secondo luogo, si è sottolineato come debba rimanere nella piena disponibilità degli Stati la possibilità di regolare l’economia nell’interesse pubblico e la fornitura dei servizi sociali, precisando infine come l’ICS debba essere rivisto in modo da garantire imparzialità ed indipendenza.
A tal fine, l’Unione e il Canada si sono espressamente impegnati a sviluppare strumenti idonei entro la ratifica dell’accordo.
In realtà però, le dichiarazioni interpretative non aggiungono un granché all’accordo: nel caso in cui dovessero sorgere contrasti interpretativi tra il testo del trattato e le dichiarazioni (che peraltro non contengono disposizioni puntuali e chiare), sarebbe verosimilmente il primo a prevalere. Inoltre, pur mantenendo, il potere di regolare i diversi settori sopra elencati, gli Stati e l’Unione dovranno sicuramente operare in conformità agli obblighi assunti con il trattato, esponendosi altrimenti a responsabilità per la violazione degli stessi. Infine, al di là dei progressi che potranno essere raggiunti in tema di indipendenza e imparzialità, rimane il grande limite dell’ICS, ovvero il fatto che l’accesso a questa forma di giustizia sia sostanzialmente unilaterale, dal momento che si consente alle sole imprese di chiamare in giudizio gli Stati per il mancato rispetto degli obblighi e non viceversa.
Quello che realmente conta per il futuro del CETA sono piuttosto le condizioni per la ratifica imposte al Belgio.
In primo luogo il governo belga, proprio in esito alla resistenza dei valloni, si è impegnato a richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea un parere in merito alla legittimità dell’ICS alla luce del diritto europeo: fintantoché la Corte non si sarà pronunciata, questo controverso punto dell’accordo rimarrà lettera morta.
Inoltre, le entità federate belghe hanno ricevuto l’assicurazione dal governo centrale che non vi sarà ratifica alcuna laddove le loro richieste (in particolare in tema di investimenti) non dovessero essere accolte nei prossimi mesi.
Insomma, la ratifica definitiva da parte del Belgio rimane incerta e condizionata, da una parte, al parere positivo della Corte di Giustizia sull’ICS, dall’altra, alla capacità delle parti contraenti di soddisfare le richieste delle regioni belghe.
Quali sono le prossime tappe?
Il prossimo 5 dicembre, come si è visto, il testo dell’accordo sarà votato dalla commissione Commercio Internazionale (INTA) del Parlamento Europeo, per poi passare all’assemblea plenaria.
Tuttavia, il prossimo mercoledì 23 novembre verrà votata una mozione (presentata da 92 parlamentari europei lo scorso 16 novembre) per richiedere il parere della Corte di Giustizia sulla compatibilità del CETA con i Trattati europei, in particolare, con riferimento alla clausola relativa all’ICS. Si tratta di una decisione importante, perché l’eventuale voto positivo sulla mozione congelerebbe la votazione finale del Parlamento.
Il voto di mercoledì si terrà però senza discussione alcuna dell’assemblea, per scelta della Conferenza dei capigruppo. Non è la prima volta che al Parlamento UE un dibattito potenzialmente critico sul CETA viene stoppato: prima è stata respinta per due volte (il 15 ottobre e il 9 novembre) la richiesta di accompagnare il voto con una risoluzione; poi, in ragione di problemi di organizzazione dei lavori, è stato pure impedito alle commissioni Occupazione ed affari sociali (EMPL) e Ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentare (ENVI) di esprimere il proprio parere critico rispetto all’accordo.
Dal momento che il coinvolgimento del Parlamento nella formazione degli accordi internazionali è ancora limitato all’approvazione del testo finale senza potere di emendarlo, le risoluzioni costituiscono il solo strumento che l’organo rappresentativo ha per esprimere la propria posizione e per influenzare l’andamento dei negoziati nel corso delle trattative. La scelta di rinunciare a questi strumenti, nel caso di specie, risulta quanto meno insolita e pone importanti interrogativi sul ruolo che il Parlamento intende costruirsi nel contesto della politica commerciale dell’Unione.
Ad ogni modo, una volta ratificato dal Parlamento UE, l’accordo entrerà provvisoriamente in vigore per la sola parte relativa alle materie di competenza esclusiva dell’Unione; poi passerà alla ratifica da parte dei singoli parlamenti degli Stati membri. Solo quando tutti avranno ratificato l’accordo, lo stesso potrà divenire definitivamente efficace nella sua interezza.
Quali prospettive?
La strada del CETA è tutt’altro che in discesa. Tra la firma e la ratifica dell’accordo da parte di tutti gli Stati membri passeranno diversi mesi e l’opposizione della Vallonia ha rinfrancato le associazioni di consumatori e cittadini e i molti detrattori dell’accordo. Se poi il Belgio non dovesse ottenere il via libera per la ratifica finale da parte delle entità federate, molti altri paesi potrebbero decidere di puntare i piedi, soprattutto quelli con un’opinione pubblica particolarmente sensibile al tema (Austria, Germania, Lussemburgo, ecc.).
Quando la Vallonia ha bloccato l’approvazione dell’accordo, in molti non hanno esitato a stracciarsi le vesti, annunciando che l’Unione perdeva così una grande occasione, se non pure la faccia, davanti al mondo intero; in molti si son chiesti come si potesse permettere ad appena 3,5 milioni di persone – di una regione di cui in pochi conoscevano persino l’esistenza – di ostacolare “un trattato internazionale voluto da 500 milioni di europei e 35 milioni di canadesi” (citazione da un noto quotidiano nostrano).
Ma a dispetto delle critiche piovute da ogni dove, forse sarà proprio la resistenza della piccola regione belga a gettare una nuova luce sui contenuti del trattato e rianimare l’interesse dell’opinione pubblica (anche italiana) su un accordo che, pur riguardano tutti noi molto da vicino, rimane ancora sconosciuto ai più.
E al di là del destino del CETA, la ferma presa di posizione del Parlamento vallone ci dimostra come, anche in questa fase storica in cui la prerogativa di controllo democratico delle assemblee parlamentari è messa in forte discussione, gli organi rappresentativi della cittadinanza siano ancora in grado di adempiere alle proprie funzioni in difesa dei diritti dei cittadini. In questo caso, il “piccolo” Parlamento vallone ha dimostrato di saper svolgere il proprio lavoro molto meglio del “grande” Parlamento europeo.