Confermativo? No, questo referendum è oppositivo

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imagedi Fabio Ferrari

Per comprendere il significato del referendum costituzionale (art. 138.2 Cost.) è necessario rispondere ad una domanda preliminare: a cosa serve una Costituzione? L’obiettivo principale di una Carta fondamentale è limitare giuridicamente il potere politico; in ultima analisi, porre degli argini al popolo ed ai suoi rappresentanti.

Si è soliti pensare – sbagliando – che la democrazia coincida con il volere del corpo elettorale, con le scelte della maggioranza votata dai cittadini; basta però uno sguardo alla storia del Novecento per capire come le libere elezioni non siano affatto – aprioristicamente – sinonimo di democrazia: Hitler divenne cancelliere vincendo democratiche elezioni (al contrario, quando tentò un colpo di Stato finì in galera); Mussolini, dal canto suo, ottenne l’incarico di formare il Governo dal Re (che si rifiutò di firmare lo Stato di assedio proposto da Facta) e la fiducia dal Parlamento sovrano, anch’esso liberamente eletto dal popolo. Certo, vi fu la “marcia su Roma”: evento non trascurabile, ma come spesso sottolineato dalla storiografia non determinante; dopo tutto, ricordava Montanelli con intelligente ironia, in Italia le rivoluzioni si fanno d’accordo con il Re e con i carabinieri.
La seconda guerra mondiale sconvolse così l’Europa ed indusse i costituenti italiani – da lì a poco imitati da molti colleghi europei – a scrivere una Costituzione rigida: una legge fondamentale cioè gerarchicamente sovraordinata alla legge ordinaria, di modo da impedire colpi di mano della semplice maggioranza parlamentare (liberamente eletta!). Da questo momento la Costituzione divenne dunque, almeno concettualmente, pienamente prescrittiva, tanto da affidare ad un giudice molto particolare il compito di annullare le leggi (del popolo sovrano) inottemperanti al testo fondamentale: la Corte costituzionale.
Guardando al testo dell’art. 1 Cost., l’Italia poteva finalmente dirsi una Repubblica democratica, poiché l’esercizio della sovranità era ora vincolato al rispetto delle «forme» e dei «limiti» imposti dalla Costituzione.
Poste queste premesse e chiarito lo scenario, l’importanza della procedura di modifica della Costituzione appare lapalissiana; difatti, non si può consentire alla semplice maggioranza di Governo di modificare la Carta: ciò significherebbe consegnare nelle mani del cane le chiavi del guinzaglio (e della catena). Vero è, al contempo, che la modifica del testo costituzionale non deve nemmeno risultare eccessivamente complessa: omettere necessari interventi di “manutenzione” della Costituzione rischierebbe di pregiudicare quella stessa funzione di garanzia che le è propria, posto che la diacronia – politica e sociale – richiede adattamenti non sempre raggiungibili con la mera interpretazione.
La soluzione escogitata dai nostri Costituenti è di estremo pregio e di sicura logica: secondo l’art. 138 la Costituzione può essere modificata con una doppia lettura sull’asse Camera-Senato; la seconda deliberazione richiede, ai fini di consentire la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, una maggioranza non inferiore ai 2/3 degli aventi diritto. Ciò si spiega con semplicità: se la tenuta della rigidità della Costituzione è legata all’impossibilità per la maggioranza di porvi modifiche unilaterali e pro domo sua; se, tuttavia, è opportuno non rendere impossibile la necessaria “manutenzione”, allora, la garanzia di una riforma non finalizzata ad allentare i vincoli imposti alla maggioranza non può che risiedere nel consenso espresso dalle opposizioni (in genere, dalle minoranze), cioè proprio da quei soggetti che la Costituzione protegge contro l’eventuale arbitrio delle maggioranze governanti. Ecco che una proposta di riforma approvata con i 2/3 dei voti parlamentari risulta – almeno in teoria – rassicurante sull’intento benevolo delle maggioranze, posto il concorso offerto da una parte cospicua dell’opposizione.
Qui si inserisce l’eventualità del referendum: difatti, qualora in seconda lettura l’approvazione del testo avvenga con maggioranze superiori al 50% più 1 degli aventi diritto, ma inferiori ai 2/3 richiesti, entro 3 mesi è data la possibilità ad 1/5 dei parlamentari, a 500000 elettori o a 5 Consigli regionali di sottoporre il testo ad un referendum, sospendendo così la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica.
Referendum, è fondamentale segnalarlo, per il quale non è previsto alcun quorum di partecipazione: votandosi su ciò che di più prezioso condivide una comunità politica – la Costituzione – l’assenza di una soglia minima di votanti potrebbe apparire senza senso, se non addirittura pericolosa; in realtà, e siamo così giunti al punto, si tratta di una previsione assolutamente corretta. Questo referendum è difatti concepito come strumento a garanzia delle minoranze: la maggioranza parlamentare con la quale è stata approvata la riforma ha certificato il mancato concorso delle opposizioni; dunque, per evitare che la “manutenzione” si risolva in una mossa unilaterale, alle minoranze potenzialmente dissenzienti del corpo elettorale è data la possibilità di opporsi, respingendo senza appello la riforma proposta. Delle due infatti l’una: o le minoranze prestano il loro consenso – garantendo così la legittimità della riforma costituzionale – oppure dissentono, ponendo in questo secondo caso un veto non superabile alla mera maggioranza.
Tertium non datur.
Ecco perché si tratta di un referendum il cui spirito è senz’altro oppositivo; ed ecco perché non è previsto il quorum di partecipazione: se fosse altrimenti, le minoranze non potrebbero bocciare la riforma alla consultazione referendaria, poiché per la validità del voto servirebbe la partecipazione della maggioranza…contro la quale il referendum è richiesto.
Lo strumento, così facendo, da oppositivo diverrebbe confermativo; ne uscirebbe totalmente snaturato nel suo significato, trasformandosi da scudo in mano alle minoranze a freccia dell’arco delle maggioranze.
Come è del tutto evidente, non si può certo impedire ai promotori del “SI” di raccogliere le firme per il referendum costituzionale e di fare campagna referendaria. Tuttavia, un minimo di galateo istituzionale imporrebbe forse una certa prudenza, evitando così di stravolgere il senso degli strumenti che la Costituzione, con coerenza invidiabile, pone nelle mani dei cittadini.
Fabio Ferrari

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