Sei domande su
Scuola e Costituzione

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È un fatto che gli studenti delle superiori passano giornate, settimane a studiare – diciamo – le guerre puniche o Il Giorno di Parini ma escono da scuola senza quasi avere una decente cognizione dei rudimenti del diritto, e con una fumosissima idea del contenuto della nostra Costituzione.

Sei domande di Claudio Giunta a Fulvio Cortese

Dato che dai 18 anni in poi questi studenti cominciano a votare, non è una cosa di cui ci si possa rallegrare. Fulvio Cortese insegna Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Trento, e da anni visita le scuole superiori per fare lezioni e seminari sul diritto e sulla Costituzione. Gli ho fatto sei domande.

So che ti chiamano spesso nelle scuole per parlare non tanto del diritto in generale, credo, quanto della Costituzione. Ai miei, ai nostri tempi (anni Ottanta) non si faceva, o almeno non si faceva nella mia scuola, che era un liceo classico di quelli ritenuti ‘prestigiosi’. Un po’ di educazione civica la faceva, malamente, il mio pessimo professore di filosofia. Adesso com’è che si mette in moto la macchina? Cioè, chi è che t’invita?

Sì, accade spesso che insegnanti o dirigenti scolastici mi chiamino per parlare della Costituzione, nell’orario scolastico o al pomeriggio. La cornice è la più varia: spesso l’introduzione alla Costituzione è la tessera di un mosaico più ampio, in cui i ragazzi vengono chiamati a riflettere sull’ambiente, l’Unione europea, il diritto internazionale, la sicurezza, la legalità, ma anche la cittadinanza attiva, l’educazione alimentare, l’educazione stradale, i beni comuni… Alla fine il contesto generale è quello di un’educazione civica 2.0, un piccolo calderone ben rappresentativo di ciò che le famiglie e la comunità sociale decidono di delegare o di richiedere alle scuole. L’iniziativa viene ancora quasi sempre dai professori di storia e di filosofia; più di rado dai docenti di diritto ed economia. Nel primo caso, di solito, lo stimolo viene dall’esistenza curricolare dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, che – anche se in molti non se ne sono accorti – ancora persiste, viene sostenuto ogni anno dal Miur con la pubblicazione di bandi per azioni determinate ed è poi affidato all’autonomia delle singole scuole. Nel secondo caso, invece, lo studio della Costituzione rientra nella disciplina scolastica che mira a dare agli studenti rudimenti di diritto (pubblico, civile e commerciale, penale, del lavoro etc.).

E ti pare che questa impostazione funzioni? Ti sembra che gli studenti approfittino dell’occasione? Ti sembra che siano più interessati e più colti, in materia di diritto e di Costituzione, rispetto a noi alla loro età? O le prediche cadono nel vuoto?

No, non mi pare che le cose vadano come dovrebbero. Certo, esistono casi virtuosi; e io stesso ho fatto delle belle esperienze, con ragazzi molto interessati e sensibili a questi temi. Ma la situazione generale non è rosea. Dove l’iniziativa è lasciata alla progettazione autonoma degli istituti, la Costituzione è uno spot all’interno di un messaggio di cittadinanza o di convivenza terribilmente vago ed eterogeneo, una sorta di nutshell di civismo dei nostri tempi: più che istruire si sensibilizza (il che, mi pare, non dovrebbe accadere). Là dove, invece, di Costituzione si discute in un ambito disciplinare chiaro, abbondano le banalizzazioni e i nozionismi poco formativi, tanto che non è detto che chi abbia affrontato studi giuridici prima di iscriversi a Giurisprudenza possa trarne davvero vantaggio. In proposito ricordo che, in una delle mie prime lezioni da matricola, all’Università, il docente fece un sondaggio in aula, chiedendo quanti fossero coloro che avevano già studiato diritto a scuola: un certo numero alzò la mano, e lui li avvisò della necessità di dimenticare tutto. Al tempo l’avvertimento mi stupì molto; oggi ne comprendo un po’ di più le ragioni.

Mi hai accennato una volta a un fatto interessante: quello che vogliono da te gli insegnanti non è tanto una ‘lezione sulla Costituzione’ quanto una ‘difesa della Costituzione’ – la perorazione più che la spiegazione. È così? Hai notato cambiamenti in questo senso, negli ultimi anni?

Si è vero, mi è capitato più volte di percepire una specie di aspettativa intorno a ciò che avrei detto sulla Costituzione. Mi è parso spesso che da me si volesse più un sermone che un’analisi. Ora, non c’è niente di male nel parlare della Costituzione, a scuola, come della chiave di volta della nostra vita associata. E non c’è niente di male nel leggere in classe la Costituzione per capire da dove vengono i diritti e le libertà di cui possiamo godere. Il problema sorge quando si fanno presentazioni astratte, nelle quali i grandi princìpi della Repubblica vengono rappresentati e ‘pre-concetti’ anziché agiti e contestualizzati. Questo tipo di approccio idealizzante fa sì che quei princìpi appaiano come un Bene indistinto, inafferrabile, e perciò incomprensibile. È un Bene che non si assimila attraverso una riflessione personale ma viene calato dall’alto, da un’autorità percepita come superiore, non soggetta a discussione.

La cosa notevole però è un’altra; è l’origine dell’autorità che i docenti metabolizzano e mediano agli studenti. Tutto parte cioè dalla frequentazione ‘fedele e partecipata’, diciamo, della varia saggistica di divulgazione che si trova in libreria e sulla quale fonda le proprie convinzioni uno specifico segmento del pubblico adulto non specializzato. Anche qui nulla di sbagliato in sé. Non c’è niente di male nel leggere l’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky o di Gherardo Colombo. Ma il fatto è che gli insegnanti non sono semplicemente un segmento del ‘pubblico colto’. A loro va chiesto uno sforzo supplementare, quel po’ di sprezzatura, chiamiamola così, che aiuta a non dare tutto per scontato e, se occorre, a mettere in dubbio le opinioni più diffuse. Altrimenti la difesa della Costituzione diventa pura retorica, difesa del testo in sé e non delle energie che esso vuole preservare, posa impegnata (e a tratti politicamente connotata); in definitiva, cassa di risonanza di un dibattito mediatico pieno di troppi luoghi comuni.

Insomma, vorresti degli insegnanti più obiettivi e meno engagés?

Non so se si tratti di un problema di mancanza di obiettività. Credo che si tratti di un problema, forse più grave, di superficialità o di ingenuità. O, se si vuole, di difetto della preparazione disciplinare in campo propriamente giuridico. Difetto che, alla fine, non è profilo trascurabile e vale anche per chi insegna ‘Diritto ed economia’, dato che l’accesso alla relativa classe di concorso privilegia da tempo chi ha un curricolo strettamente economico (e quindi poco o per nulla giuridico). Se le cose stanno così è naturale, e quasi giustificabile (quasi), che gli insegnanti non abbiano gli strumenti idonei e preferiscano affidarsi al parere di un professionista molto presente nei media: benché poi non manchino le ottime (e semplici) pubblicazioni in materia, che potrebbero essere utilmente adoperate nella scuola al posto di tanti saggi ‘militanti’ (mi viene in mente, ad esempio, il bel libro Con la Costituzione sul banco, curato per Franco Angeli da Andrea Pugiotto e Chiara Bergonzini).

Ciò detto, non sono convinto che sia solo una questione di legal skills. Perché c’è un altro dato, per me egualmente preoccupante. Nel curricolo degli insegnamenti di filosofia, di storia e di italiano c’è un’infinità di materiale su cui lavorare, anche al di là di ciò che si può fare, per lo meno a scuola, sul testo nudo e crudo della Costituzione. E quando, nelle scuole, mi accade di parlare di costituzionalismo raccontando di Guglielmo il Conquistatore o leggendo un passo di Machiavelli o citando ciò che diceva Leopardi sull’importanza di una ‘società stretta’, vedo che i ragazzi si sorprendono del legame che può esistere tra ciò che devono imparare ‘per lettere’ o ‘per storia’ e le fondamenta delle nostre istituzioni e della nostra vita pubblica. Ma allora è quello il serbatoio a cui i docenti dovrebbero attingere, non certo (o non solo) la voce preconfezionata del testimone pubblico e noto. Mi accorgo, invece, che quel serbatoio è poco valorizzato e che l’insegnante di storia, di filosofia o di italiano vuole insegnare solo la storia o la filosofia o l’italiano in senso stretto.

In conclusione, ho l’impressione che della Costituzione, e del diritto in generale, gli studenti continueranno ad avere un’impressione distorta: di dati freddi e tecnici, estranei alla loro vita quotidiana, che se vorranno studieranno in futuro con l’aiuto di professionisti; o di sermoni autoreferenziali, pezzi di un sapere distante, da assimilare in vista della terza prova dell’esame di maturità o del superamento di un qualche test per l’accesso ai corsi di laurea.

È interessante quello che dici sul rapporto tra lo studio del diritto e della Costituzione e lo studio della storia e della letteratura, cioè della continuità possibile tra queste due sfere della preparazione scolastica, che tendiamo a tenere ben distinte. Allora proviamo. Se tu dovessi scrivere un libro per le scuole, diciamo per il triennio del liceo (o dei tecnici), un libro che aiuti gli studenti a capire i fondamenti del diritto e la nostra Costituzione, che cosa ci metteresti dentro? Cioè: come useresti le discipline meglio insediate nel curriculum scolastico (lettere, storia, filosofia) per farli riflettere sulla Costituzione? Insomma penso a una cosa come quei libretti Laterza, «Prima lezione sulla Costituzione», ma con l’ampio orizzonte problematico a cui hai accennato.

Difficile, ma ci provo. Da un po’ di anni mi ritrovo ogni primavera a fare il giurato di un premio bandito da un liceo classico della provincia di Vicenza, in collaborazione con un’associazione culturale e con il locale consiglio dell’ordine degli avvocati. Chi partecipa – e i ragazzi vengono da tutta Italia – può scegliere tra due prove diverse: una è la traduzione e il commento di un brano della letteratura latina (Cicerone, Tito Livio, Tacito etc.), l’altra è una sorta di tema libero da svolgere reagendo agli stimoli che vengono da un passo di un’opera filosofica, politica o giuridica (ad esempio di Hannah Arendt o di Machiavelli o di Romagnosi o di Dante, la Monarchia; ma si può pensare anche a Guicciardini, San Tommaso, Aristotele, Platone, Alfieri, Kant, Proudhon, Locke; e sono stati scelti anche passi di Manzoni, Leopardi, Dostoevskij, Hugo). Ciò che viene chiesto ai ragazzi, in entrambi i casi, non è di ripetere le nozioni studiate in classe secondo un metodo tradizionale; gli viene richiesto di usare le loro conoscenze per dimostrare di saper trarre dai brani proposti elementi utili per illuminare una questione generale (la cittadinanza, la giustizia, la democrazia, la rappresentanza). I risultati sono sempre incoraggianti, se non addirittura sorprendenti. Non che tutte le scuole debbano organizzare iniziative di questo tipo: ma mi pare che sia un modello interessante, e mi pare che sarebbe una buona cosa dare ai ragazzi la possibilità di ‘manipolare’ i testi, facendoli parlare.

Poi c’è un’altra risorsa: importanti materiali giuridici che hanno anche rilievo storico come la Costituzione americana del 1787 o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 o la Costituzione di Weimar del 1919 o estratti dello Statuto albertino del 1848 o del Codice civile napoleonico del 1804 etc.). Perché non riflettere sulle loro ragioni storiche, filosofiche e culturali? Perché non riflettere sul modo in cui queste fonti si sono ‘fatte diritto’? Sul punto – intendo con riguardo all’uso dei testi – le opportunità didattiche sono molte. Per esempio, la tradizione giuridica ha una sua lingua, che fa ‘letteratura’: perché non studiare anche questa lingua? Perché non antologizzare estratti di un importante testo normativo o di una sentenza particolarmente significativa della Corte di cassazione o della Corte costituzionale? Perché non leggere, in questo senso, lo stesso testo della nostra Costituzione repubblicana?

Infine c’è un’altra opzione, che forse riguarda più da vicino l’insegnamento della filosofia e che, però, mette in gioco, almeno potenzialmente, una scelta di campo non scontata e non neutrale: prendere spunto da grandi casi del dibattito giuridico attuale (ad esempio le questioni del ‘fine vita’ o del negazionismo o della discriminazione nei confronti degli stranieri etc.) per sollecitare gli studenti a prendere una posizione facendo leva su ciò che hanno imparato dallo studio della tradizione del pensiero occidentale. Mi è capitato più volte di tentare l’esperimento adoperando – senza tuttavia dirlo preventivamente ai ragazzi – una controversia decisa diversi anni fa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, un caso in cui entrava in gioco il problema delle discriminazioni cosiddetta ‘alla rovescia’. Ebbene, senza accorgersene, gli studenti hanno argomentato una possibile soluzione servendosi di ciò che già sapevano e riuscendo, così, a formulare una risposta ‘giuridica’ a tutti gli effetti (e il più delle volte del tutto coincidente con una delle soluzioni che le parti della controversia da cui ho tratto spunto avevano realmente prospettato).

Immagino che nella tua esperienza di ‘giurista a scuola’ ci sia stata un’accelerazione, e una trasformazione, negli ultimi mesi, a causa del prossimo referendum costituzionale. Mi vuoi raccontare in breve la tua esperienza? Chi ti ha invitato? Che cosa volevano? Che clima hai trovato nelle classi?

Si, è così. L’autunno è stato pieno di dibattiti con gli studenti. Diciamo che, in generale, questi incontri mi hanno confermato che la domanda di diritto e di Costituzione è particolarmente forte, ma anche che ci sono i problemi di cui ti dicevo prima – i problemi relativi alla concreta gestione scolastica di questi temi. Insegnanti e alunni arrivano a questi incontri con delle idee abbastanza forti e radicate, vale a dire per esempio che presuppongono che concetti come democrazia, forma parlamentare, partecipazione democratica etc. siano univoci, e quindi chiari e invariabili, e non soggetti a discussione. Arrivano, cioè, non con il dato della Costituzione come problema, come luogo in cui ‘ritrovarsi’ nella dialettica dei significati e dei conflitti che sono ricorrenti in tutte le costituzioni; sembrano invece abbacinati dall’idea della costituzione come risultato già acquisito (e così, a seconda dei casi, ‘sacro e intoccabile’ o ‘limitato e da rifare integralmente’).

Ne sono nate, spesso, discussioni interessanti, e anche scoperte un po’ sorprendenti. Per esempio, quasi tutti gli studenti ignorano che le disposizioni della Costituzione – anche di quella già in vigore sin dal 1948, naturalmente – sono suscettibili di interpretazioni diverse e talvolta contraddittorie, e che tali diverse interpretazioni sono state effettivamente date nel corso del tempo dal legislatore o dai giudici. E lo stesso si può dire sulla (scarsa) consapevolezza che una costituzione può trasformarsi, anche in profondità, senza la modificazione formale del testo della carta costituzionale (penso per esempio a come si è imposta la supremazia del diritto dell’Unione europea). Qual è la conseguenza di questa ignoranza? La tendenza a concepire la propria interpretazione della Costituzione come dato di fatto irrefutabile, che esclude punti di vista differenti, ed egualmente legittimi. Il che equivale a dire che si finisce per fare della Costituzione l’ostaggio delle emozioni, della congiuntura politica o del conflitto generazionale. Ma la Costituzione esiste per mediare, non per dividere.

 

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