di Michele Carducci
L’avvocato barese Luigi Paccione ha depositato presso il Tar Lazio un interessante ricorso nei confronti del Governo italiano. Il caso non è ancora giunto a un esito anche solo preliminare, ma preannuncia evoluzioni interessanti e inedite.
Il ricorso è stato promosso su iniziativa dell’avvocato in quanto tale, ritenutosi leso – e per questo legittimato ad agire – nei propri diritti e interessi, di matrice costituzionale, consistenti nel diritto-dovere di promuovere la solidarietà costituzionale, ex art. 2 Cost., e di garantire e far garantire la fedeltà costituzionale, richiesta dall’art. 54 Cost. A seguito del suo deposito, diverse associazioni hanno aderito all’iniziativa, tra cui comitati per la pace nazionali e regionali nonché la campagna “Ponti e non muri” di Pax Christi Italia.
Nel dettaglio, l’iniziativa dell’avvocato consiste in un ricorso per illegittimità del silenzio inadempimento, opposto dal Consiglio dei Ministri in persona del Presidente p.t., a seguito di uno specifico atto di invito, trasmesso dal ricorrente, teso a imporre l’adozione degli atti, di natura amministrativa, conseguenti al parere – a detta del ricorrente vincolante – reso dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) in data 19 luglio 2024, con riguardo specifico al blocco degli scambi commerciali in materia militare e di armi con Israele.
L’iniziativa, dunque, prende le mosse da un responso della CIG, emesso a seguito della Risoluzione 77/247, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022. Con essa, venivano indirizzati al giudice internazionale due quesiti: a) il primo, sulle conseguenze giuridiche della persistente violazione, da parte dello Stato di Israele, del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, violazione consumata attraverso l’occupazione militare, la colonizzazione e la prolungata annessione del territorio palestinese a far data dal 1967, avuto riguardo non solo alle misure adottate per modificare la composizione demografica e lo status giuridico della città santa di Gerusalemme, ma anche a quelle sulla disparità di trattamento fra gli abitanti di tali territori; b) il secondo, sul contenuto degli obblighi degli Stati membri e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite al cospetto della condotta israeliana.
Poiché la CIG ha risposto dichiarando l’occupazione israeliana del territorio palestinese illegale e lesiva delle norme di diritto internazionale generale, umanitario e dei diritti umani, con connesso obbligo, da parte di tutti gli Stati membri dell’ONU, di non prestare aiuto o assistenza allo Stato di Israele in pendenza dell’antigiuridicità accertata, il ricorrente ne ha dedotto, da un lato, l’insorgenza di un dovere-potere comunque obbligatorio, perché radicato negli artt. 10, comma 1, e 11 della Costituzione, vincolante lo Stato in nome appunto della sua fedeltà costituzionale, e, dall’altro, il diritto/interesse di qualsiasi cittadino, in nome della medesima fedeltà costituzionale, ad agire in giudizio per far valere l’ottemperanza di tale dovere.
A tal fine, il ricorrente, a supporto di siffatta ricostruzione, ha invocato anche l’art. 1 della legge n. 185/1990, dove, ai commi 5 e 6, si precisa che «l’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione e la delocalizzazione produttiva, sono vietati quando sono in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia, con gli accordi concernenti la non proliferazione e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di armamento» e che «l’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento sono altresì vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere; b) verso Paesi la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione; c) verso i Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell’Unione europea (UE) o da parte dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE); d) verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa».
In definitiva, sembra che l’iniziativa dell’avv. Paccione voglia costringere il giudice amministrativo a esprimersi chiaramente sulla portata delle disposizioni costituzionali in tema di vincoli internazionali, ripudio della guerra e fedeltà costituzionale, alla luce di interpretazioni della CIG che, ancorché non vincolanti di per sé, contribuiscono a riempire i contenuti indicati dall’art. 54 Cost., proprio perché conformi al principio solidaristico e alla tutela dei diritti umani.
Sarà interessante constatare come il TAR reagirà a tale sollecitazione. Potrà, il giudice amministrativo, trincerarsi dietro l’enunciato dell’art. 7, comma 1, del Codice del processo amministrativo? Questa disposizione, com’è noto, prevede che non siano impugnabili «gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico». Tuttavia, al di là del dato letterale, che riguarda il riferimento agli «atti emanati» e non alle omissioni amministrative, è dubitabile che l’ottemperanza statale delle indicazioni della Corte Internazionale di Giustizia si traduca esclusivamente nei c.d. “atti politici”.
Almeno quattro elementi militano in senso contrario a tale conclusione.
1) In primo luogo, la giurisprudenza delle Corti supreme italiane in tema d’insindacabilità dei poteri di governo coinvolgenti l’effettività dei diritti umani è, come fin troppo noto, estremamente restrittiva. Nel caso sollevato dall’avvocato, il thema decidendum mette in discussione – come situazione soggettiva potenzialmente lesa dall’inerzia governativa – il diritto umano alla pace di tutti, avvocato ricorrente incluso. Infatti, l’art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo statuisce che «ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati». Questo “diritto all’ordine” inequivocabilmente esige pace interna e internazionale, nella giustizia anch’essa interna e internazionale. È l’unica lettura plausibile del suo contenuto, dopo che lo Statuto delle Nazioni Unite ha innovato il precedente diritto internazionale, stabilendo che i «popoli» (non gli Stati) si sono dichiarati «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra», tanto da ulteriormente specificare, con l’art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che pure la «propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalle legge». Inoltre, è la previsione del diritto alla pace a spiegare e giustificare l’articolo 51 proprio dello Statuto ONU, dove si riconosce il diritto, individuale e collettivo, all’autotutela e non certo all’aggressione («Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite…»). Poiché quell’art. 51 funge, in base alla citata legge n. 185/1990, da parametro, congiuntamente con la Costituzione, di atti e procedimenti amministrativi comportanti la diffusione e l’uso di strumenti offensivi del diritto alla pace, sembra difficile, in nome proprio della fedeltà alla Costituzione, sostenere che la sua attuazione realizzi attività politiche non incidenti sui diritti e dunque non sindacabili, ancor più dopo la nota sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014, che in tema di crimini internazionali e immunità giurisdizionale degli Stati ha detto la sua.
2) D’altronde, e siamo al secondo elemento da considerare, l’interesse ad agire dell’avvocato è stato radicato nell’art. 54 della Costituzione, proprio perché è lì che si innesca quel trait d’union fra “diritti-doveri” di fedeltà costituzionale dei cittadini (quale l’avvocato è) e “poteri-doveri” di fedeltà costituzionale dei titolari di funzioni pubbliche (quali i titolari del Governo citati in giudizio sono), che nessun atto od omissione, in nome della “insindacabilità” della politica, può rompere, se non violando la Costituzione stessa (in merito, si v. la ricostruzione del tema in A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Milano, Giuffrè, 2013). Detto altrimenti, negare la legittimazione ad agire dell’avvocato ricorrente, pur tenuto a rispettare e far rispettare la Costituzione, nella contestuale affermazione dell’insindacabilità del Governo nel decidere se e come rispettare e far rispettare la Costituzione attraverso atti non legislativi, per di più in un campo di azione coinvolgente l’effettività del diritto umano alla pace, appare manifestamente discutibile. L’unico appiglio risiederebbe in quell’art. 7 del Codice processuale amministrativo: ben misera cosa al cospetto della Costituzione.
3) Se siffatta tesi fosse considerata plausibile, assisteremmo all’emersione di un’ermeneutica in frode alla Costituzione, ancor più singolare dopo che il principio di buona fede è entrato nell’azione amministrativa e il Consiglio di Stato, a partire dalla sentenza n. 6753/2022, ha osservato che la buona fede, intesa quale concetto giuridico generale il cui nucleo precettivo è costituito dai doveri di correttezza e lealtà, è ormai innalzata a clausola generale dell’ordinamento giuridico, «in grado di permeare ogni ambito del diritto».
4) Per concludere, allora, con il quarto elemento di considerazione, non si può non ipotizzare che l’eventuale appiglio d’insindacabilità ai sensi del citato art. 7 del Codice processuale, ove erto dal giudice a barriera del suo decidere sull’inerzia governativa a tutela della pace, sfocerà in un’ammissibile e non manifestamente infondata eccezione di legittimità costituzionale di quell’art. 7, per contrasto non solo con la Costituzione, a partire dall’art. 54 senza escludere gli artt. 10 e 11 alla luce della cit. sentenza della Consulta n. 238/2014, ma anche con lo Statuto ONU e l’art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani, fonti indubitabilmente sovraordinate alle norme del processo amministrativo e al diritto vivente su di esse appiattito.