Von der Leyen bis, il vuoto della politica

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di Andrea Guazzarotti

La candidata alla Presidenza della Commissione per il Partito popolare europeo, Ursula von der Leyen, è stata prima designata dal Consiglio europeo (capi di Stato o di governo), poi eletta dal Parlamento europeo (PE). La Presidente uscente, candidata del più grande gruppo politico al PE, è stata, dunque, riconfermata, dopo che il suo gruppo ha ottenuto una chiara maggioranza relativa, in crescita rispetto alle precedenti elezioni europee. Si tratta di una prova di stabilità nella continuità delle istituzioni europee, oppure di una vittoria figlia della cintura sanitaria europeista eretta nel Parlamento europeo, che poco ha a che spartire con la credibilità personale e istituzionale guadagnate sul campo dalla Presidente uscente (Cerretelli)? Una Presidente «che pochi amano ma molti hanno rieletto per evitare una crisi istituzionale devastante» (ibidem).

Far scegliere agli elettori la Presidenza della Commissione, o della truffa delle etichette. La continuità delle istituzioni europee, in realtà, è difficile da testare. Rispetto alla precedente elezione della “Von der Leyen I”, si è trattato di un apparente ritorno alla prassi – in passato ardentemente patrocinata dal Parlamento europeo – degli Spitzenkandidaten. Una prassi progettata dall’illusione dell’accademia di trasformare la struttura costituzionale dell’UE senza passare per la riforma dei Trattati e, soprattutto, per la (improbabile quanto dolorosa) costruzione di un’egemonia politica e di un demos europeo. Per avvicinare gli elettori alle istituzioni europee e politicizzare la formazione della Commissione, in modo da ridimensionare il ruolo di King-maker del Consiglio europeo (cioè dei governi nazionali), era stata valorizzata la novità normativa del Trattato di Lisbona (2009) che imponeva al Consiglio europeo di designare la Presidente della Commissione «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17.7 TUE): a tal fine, ogni gruppo politico europeo avrebbe proposto prima delle elezioni europee un proprio candidato a guida della Commissione, con un proprio programma, e nessun Presidente della Commissione avrebbe dovuto essere designato se non fosse stato prima ufficialmente candidato dinanzi agli elettori. Questa almeno era l’ambizione espressa in una risoluzione del Parlamento europeo nel febbraio 2018. Ma, dopo l’apparente successo dell’elezione di Junker nel 2014, nel 2019 quell’ambizione del PE naufragava miseramente e, grazie anche all’impallinata del Presidente Macron, il candidato del PPE, il capogruppo Manfred Weber, veniva bocciato dal Consiglio europeo, per essere sostituito dalla sconosciuta (all’epoca) Von der Leyen. Sempre tedesca, sempre del PPE, ma in posizione assai defilata e apparentemente innocua rispetto alla difesa delle prerogative dei capi dei governi nazionali che siedono nel Consiglio. Degno di nota che il candidato presentato dai Socialisti & Democratici, il socialdemocratico olandese Frans Timmermans, fu impallinato dai governi sovranisti di Polonia e Ungheria fiancheggiati dal governo italiano del “Conte I” (ciò, perché Timmermans era stato in precedenza Commissario impegnato nella difesa dello stato di diritto e della Carta dei diritti). Nel 2024, sebbene i gruppi politici europei maggiori e/o tradizionali (PPE, S&D, Renew, Green, The Left) avessero presentato candidature ufficiali alla Presidenza della Commissione e si fosse persino organizzato un dibattito pubblico tra gli Spitzenkandidaten alla vigilia delle elezioni, il tema del vincolo giuridico al Consiglio europeo non sembrava più scaldare i cuori. L’importante era arginare l’assedio dei barbari e neutralizzare le forze nazionaliste e/o anti-europeiste, che si annunciavano assai agguerrite. Queste ultime, del resto, non presentavano alcun candidato alla Presidenza; neppure il gruppo dei Conservatori egemonizzato da Fratelli d’Italia. I motivi sono intuibili: se l’Europa deve (tornare a) essere quella delle Nazioni e non delle istituzioni sovranazionali, il King-maker può essere solo il Consiglio europeo (cioè i capi di governo). Non certo gli elettori di un organo (il Parlamento europeo), cui, a dispetto del nome, non corrisponde alcuna forma di governo autenticamente parlamentare.

La riconferma dei “centristi” europei e la stampella dei Verdi. L’esito delle elezioni era tale da confermare il tradizionale asse tra PPE e S&D (rispettivamente, 188 e 136 seggi su 720), assieme con i liberali di Renew, che pure avevano il calo più marcato (l’emorragia dei macroniani). Il PPE passava, in effetti, dal 25,39% al 26,11%, mentre i Socialisti (S&D) dal 19,57% al 18,89%; Renew calava più di questi ultimi, dal 13,9% al 10,69%. Non ha molto senso, dinanzi a questi esiti elettorali, parlare di “colpi di stato” europei e altri slogan in libertà: questi tre gruppi politici avrebbero potuto, da soli, esprimere la maggioranza assoluta necessaria per eleggere la Presidente della Commissione. Nessuna coalizione alternativa poteva raggiungere la maggioranza assoluta (ammesso che le destre europee possano considerarsi davvero coalizzabili). Ma la regola del voto segreto (assolutamente incompatibile con un’autentica forma di governo parlamentare) poneva, come in passato, la necessità di trovare una stampella contro i franchi tiratori (prevalentemente in agguato nello stesso PPE: in effetti, c’è stato il 12% di defezioni, con 401 voti anziché 454). Nel 2019 quella stampella fu offerta alla “Von der Leyen I” proprio dai voti della componente polacca (il PIS) del gruppo dei Conservatori (ECR), mentre nel gennaio del 2022 i voti di questi ultimi erano stati determinanti per l’elezione della Metsola (del PPE) a Presidente del PE: la stessa Von der Leyen, nel già citato dibattito pre-elettorale, si era detta disponibile a rinnovare la collaborazione con la Meloni, nella sua duplice qualità di Presidente del Consiglio italiano e del Partito dei Conservatori europei. A facilitare il dialogo era intervenuta, alla vigilia del voto parlamentare per la Von der Leyen II, anche la defezione della componente spagnola di Vox dal gruppo guidato dalla Meloni. Ma, a elezioni avvenute, le alchimie politiche suggerivano alla futura Presidente della Commissione e al PPE di optare per il sostegno dei Verdi europei (che, invece, nel 2019 avevano votato contro la “Von der Leyen I”). La logica sottesa sembra vagamente ispirarsi all’attuale coalizione di governo tedesca (socialisti, liberali e verdi): i Verdi, che hanno perso invero molti seggi Parlamento europeo (dal 9,92% del 2019 al 7,36% del 2024), sono egemonizzati dalla delegazione tedesca (15 membri, contro i 6 olandesi, i 5 francesi, i 4 italiani e i 4 spagnoli, più altri). I Verdi (specie in Germania), si sono dimostrati ardenti fautori del sostegno militare all’Ucraina, che sembra l’unico punto fermo del programma di governo della Von der Leyen II. Ma oltre a questo, chiedere ai Verdi di fare da stampella alla nuova Presidente della Commissione era, in qualche modo, una scelta obbligata, per l’indisponibilità dei Liberali (specie macroniani) e dei Socialisti a condividere il proprio sostegno con quello dei Conservatori. Questi ultimi hanno visto crescere il proprio peso nel Parlamento europeo, passando dal 9,78% al 10,83% dei seggi, ma si è trattato di un successo non sufficiente a far produrre quella rivoluzione copernicana prospettata alla vigilia del voto, di un passaggio, cioè, dall’alleanza PPE-Socialisti-Liberali a una PPE-Conservatori, relegando le sinistre europee all’opposizione e ponendo i Conservatori nel ruolo di pontieri con le destre ultranazionaliste (Rassemblement National francese, Lega italiana, Fidesz ungherese, ecc.). Come per la scelta di allearsi con i Verdi, anche qui il dato nazionale può aver contato qualcosa, stavolta in senso contrario: se il PPE è a trazione tedesca (non da ora), con 31 membri provenienti dalla Germania, il gruppo dei Conservatori è egemonizzato da Fratelli d’Italia (23 membri) e dai polacchi del PIS (20 membri), con nessun membro di provenienza tedesca.

Quale ruolo per i Conservatori europei guidati dalla Meloni? Molti dei più autorevoli commentatori del mainstream italiano si sono prodigati in critiche contro la Presidente del Consiglio Meloni, nella sua figura di leader di Fratelli d’Italia e dei Conservatori europei, per non aver votato a favore della riconferma della Von der Leyen, in quanto ciò avrebbe pregiudicato gli interessi italiani nella successiva contrattazione di Commissari “di peso”. Paradossale critica, se si tiene conto della presunta fede “europeista” del mainstream italiano: il Parlamento europeo dovrebbe essere l’istituzione chiamata a incarnare il (futuribile?) sistema politico para-federale europeo, quale sede della rappresentanza politica dei cittadini europei (divisi per appartenenze politiche) e non dei “popoli europei” (divisi per nazionalità). Se già nel voto parlamentare alla Presidenza della Commissione i rappresentanti dei cittadini europei devono piegarsi all’interesse nazionale e sacrificare la propria coerenza partitica, allora non c’è spazio per alcuna prospettiva di un futuro sistema politico transnazionale. Vero che è stata la prima volta che un partito che esprime il capo del governo in carica in Italia vota contro l’investitura della Presidenza della Commissione (F. Basso). Ma alle spalle di questa rottura della tradizione ve n’è un’altra, di portata ben più grande e che probabilmente la spiega, visto che per la prima volta un Presidente del Consiglio italiano è il capo di un partito erede del MSI ed espressamente avverso alla cultura anti-fascista e internazionalista che ha ispirato la Costituzione.

Se, poi, si guarda alla spartizione delle cariche nel Parlamento europeo, può rilevarsi che i Conservatori non sono stati troppo penalizzati, anzi! L’attuale Parlamento europeo è egemonizzato dai membri del PPE, prevalentemente tedeschi (il che corrisponde, in parte, alla duplice egemonia partitica dei Cristiano-democratici tedeschi entro il PPE e a quella demografica dei rappresentanti tedeschi entro il PE). Oltre alla (riconfermata) Presidente del PE (la maltese Roberta Metsola), il PPE esprime 5 membri dell’Ufficio di Presidenza (di cui uno tedesco) e ben 8 presidenze di Commissione (di cui 3 a parlamentari tedeschi). Tra i Vicepresidenti del Parlamento e i Presidenti di Commissione troviamo, ovviamente, membri degli altri gruppi politici che sostengono la Presidenza Von der Leyen, ma troviamo anche una componente tutt’altro che insignificante dei Conservatori. Se tra i Vicepresidenti e Questori, oltre a quelli del PPE, si annoverano 6 Socialisti, 3 di Renew e uno dei Verdi, i Conservatori ottengono ben 3 posizioni (mentre la Sinistra/Left, che pure ha votato contro Von der Leyen, ne ottiene uno). Gli stessi Conservatori ottengono ben 3 Presidenze di Commissione e 9 vicepresidenze (ma occorre considerare che ognuna delle 20 Commissioni ha ben 4 Vicepresidenti). Non proprio un magro bottino, per chi ha deciso di votare contro la Presidente riconfermata. Anche alla Sinistra/The Left, che pure ha votato contro, è stata attribuita una Presidenza (nella Sottocommissione per le questioni fiscali: Pasquale Tridico, M5S) e una prima vicepresidenza (al Commercio internazionale: Manon Aubry, la capo-gruppo francese del partito France insoumise), cui si aggiunge una seconda vicepresidenza alla Commissione per i diritti delle donne e uguaglianza di genere. Guardando al solo dato nazionale, invece, spicca, come accennato, la presenza tedesca: ben 6 presidenze di Commissione (Francia e Italia ne hanno 2 ciascuna, la Polonia e la Spagna 3 ciascuna), e 5 prime vicepresidenze (la Francia ne ha 2, l’Italia 2, la Spagna 3, la Polonia una).

Il “cordone sanitario” contro le forze anti-UE e la post-politica europea. Le promesse elettorali non sono mai da prendere troppo sul serio, specie se fatte dagli Spitzenkandidaten alla Commissione europea. E tuttavia, la promessa della Von der Leyen di alzare un “cordone sanitario” contro le forze anti-UE è stata mantenuta, se non altro per ciò che riguarda la spartizione delle cariche del Parlamento europeo. Ai gruppi nazionalisti anti-UE, in effetti, non è stata attribuita nessuna carica parlamentare, nonostante la loro consistenza sia aumentata rispetto alle scorse elezioni. Il nuovo gruppo “Patrioti per l’Europa”, istituito su iniziativa di Orbán, con i suoi 84 seggi (corrispondente all’11,67%), costituisce il terzo gruppo per numerosità nel PE. Il gruppo dei Patrioti (egemonizzato dal Rassemblement National della Le Pen, con ben 30 parlamentari) è l’erede del gruppo Identità e democrazia (ID), che alle precedenti elezioni europee del 2019 aveva inizialmente capitalizzato 73 seggi, per poi scendere a 49 a fine legislatura, soprattutto per via dell’espulsione di Alternative für Deutschland-AfD (dopo le frasi pronunciate dal suo leader sulle SS). La Lega di Salvini, come nella precedente legislatura europea aderiva a ID, così oggi aderisce ai Patrioti (con 8 membri); la novità è data dalla presenza del partito ungherese di Orbán (Fidesz, con 11 membri), a lungo membro del PPE e costretto a uscirvi nel 2021 per le note vicende sullo Stato di diritto in Ungheria; a ciò si aggiunge il transito dell’ultra-destra spagnola di Vox (6 parlamentari) dai Conservatori ai Patrioti, nonché, come accennato, l’uscita di AfD. Quest’ultima ha ottenuto un ottimo risultato elettorale in Germania (superando persino la SPD e ottenendo il 4,9% di voti in più rispetto al 2019, capitalizzando ben 14 seggi): espulsa da ID, non si è data per vinta e, anziché relegarsi nel limbo dei “Non iscritti” (al PE non esiste il “gruppo misto”, come in Italia), ha dato vita a un nuovo gruppo: Europa delle Nazioni sovrane (ESN), assieme ai polacchi di Konfederacja (3 membri), i bulgari di Rinascita (3 membri) e altri singoli parlamentari (di Francia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), per un totale di 25 membri. L’ex leader di AfD, Maximilian Krah, espulso dal vecchio gruppo di ID dopo le frasi concilianti sulle SS, è stato rieletto ma ha strategicamente scelto di restare nel limbo dei Non iscritti/NI, per agevolare il varo del nuovo gruppo ESN da parte di AfD. Diversa – per ora – la sorte del neo-nato partito della sinistra rosso-bruna tedesca fondato da Sara Wagenknecht, già capo-delegazione della Linke tedesca al PE (dal 2015 al 2019). Il suo nuovo partito (BSW, nato dopo la scissione della Linke nel 2023) ha ottenuto 6 seggi con più del 6% dei voti in Germania (mentre la Linke non ha superato la soglia di sbarramento, con il 2,7%). Il BSW, tuttavia, è rimasto confinato nel limbo dei NI, dopo aver fallito il varo di un nuovo gruppo “rosso-bruno” assieme al M5S, con il quale condivideva la netta opposizione all’invio alle armi in Ucraina. Il M5S, dal canto suo, ha una lunga storia di ostracismo nel PE, per le sue posizioni originarie “anti-euro”: alleati con il Brexit Party di Farage nel gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta dal 2014-2019, nella scorsa legislatura europea aveva invano tentato di entrare nel gruppo S&D e poi nei Verdi, subendo una dolorosa emorragia (da 14 a 5 membri). Probabilmente memori di ciò, i neo-eletti parlamentari pentastellati stavolta hanno preferito aderire a un gruppo politico europeo “tradizionale”, La Sinistra/The Left, ottenendo la presidenza della sottocommissione per le questioni fiscali (con Pasquale Tridico); assai dubbio che avrebbero potuto ottenere qualcosa alleandosi con il BSW (schierato su posizioni asseritamente “putiniste”). Un segno che il “cordone sanitario” voluto da Von der Leyen & co. sta funzionando?

A questo serve il Parlamento europeo, addomesticare i “barbari” più addomesticabili e stigmatizzare quelli irredimibili? Sono anni che il Parlamento europeo fa parte del problema del deficit democratico, più che della sua soluzione: un sistema politico che, per l’architettura istituzionale dell’UE, non può dar vita ad alcuna alternanza tipica del parlamentarismo, finisce per strutturarsi inevitabilmente attorno alla dicotomia tra soggetti politici favorevoli all’integrazione europea “a prescindere” e soggetti politici anti-UE, più o meno corrispondenti ai partiti anti-sistema delle democrazie tradizionali, che nascono e si fanno eleggere non per giocare il gioco del conflitto democratico, ma per stravolgerlo dall’interno. Avere solo il nome di Parlamento, ma non le autentiche caratteristiche; continuare a chiamare “europee” delle elezioni governate dalle legislazioni dei singoli Stati, costituiscono ostacoli formidabili al ristabilimento della chiarezza e al superamento di quella dicotomia “anti-politica”. Ma le radici della natura anti-politica dell’UE non stanno tanto nei presunti limiti di progettazione del Parlamento europeo e del suo rapporto con la Commissione, bensì nell’idea di fondo, nata con Maastricht, di affidare la convergenza economica all’opaco coordinamento intergovernativo e la politica monetaria a un’istituzione totalmente irresponsabile, come la BCE. Un mix pensato proprio per neutralizzare il conflitto sociale distributivo nelle democrazie nazionali, senza realizzarne alcun equivalente a livello europeo.

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