Quando la mitigazione climatica non è dannosa?

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di Alberto T. Cohen

Tra i tanti meriti riconosciuti alla “storica” decisione CEDU del caso Verein KlimaSeniorinnen (53600/20, specialmente al § 550), uno non sembra aver ricevuto ancora il necessario approfondimento. Ci si riferisce alla distinzione, tracciata dalla Corte europea, fra (mera) mitigazione climatica, intesa come semplice riduzione delle emissioni di gas serra, e dannosità della stessa (intesa come l’insieme degli effetti comunque negativi di quella riduzione, determinati da omissioni o errori di calcolo sulla sua quantificazione in funzione del contenimento dell’aumento della temperatura media globale, fissato dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi).

È una distinzione imprescindibile, perché su di essa si fonda tutto il discorso sulla sindacabilità o meno dell’operato degli Stati. Com’è noto, infatti, gli Stati hanno per lungo tempo sostenuto la tesi di non poter essere sindacati nelle proprie politiche climatiche, sulla base di due argomenti:

– in primo luogo, la mitigazione climatica altro non sarebbe che una discrezionale riduzione delle emissioni di gas serra, frutto di analisi e valutazioni politiche prive di effetti sul sistema climatico;

–  in secondo luogo, tale mitigazione climatica sarebbe priva di effetti, perché l’azione del singolo Stato ben poco potrebbe incidere appunto sull’intero sistema climatico (è il c.d. “Drop in Ocean Argument”).

La Corte smonta direttamente il “Drop in Ocean Argument” degli Stati, rappresentato anche in sede CEDU; e lo fa in sei tappe chiarissime, come mai prima fra i giudici che si sono occupati del tema. Conviene elencarle.

1) La previsione della mitigazione climatica come mera riduzione delle emissioni di gas serra apparteneva ai contenuti del Protocollo di Kyoto, ma essa non è stata confermata da quelli dell’Accordo di Parigi, dove, invece, la mitigazione, in ragione dell’art. 2 appunto di Parigi, deve rispettare una soglia esplicita di sicurezza, ovvero il tetto massimo di aumento della temperatura media globale tra +1,5°C e 2°C.

2) Questo comporta che la mitigazione sia attività non più libera nel fine (il ridurre purchessia), bensì “limitata” dal fine (il ridurre nel rispetto del tetto massimo indicato dall’art. 2 di Parigi).

3) In altri termini, la mitigazione climatica deve essere “sicura” ossia quantificata dentro il tetto massimo del citato art. 2 di Parigi.

4) Ogni Stato deve effettuare questo conteggio di “sicurezza”, attraverso il calcolo della propria quota dentro il c.d “Carbon Budget” globale a disposizione di tutti gli Stati (ossia le emissioni totali ancora disponibili per non sforare il tetto dell’art. 2 di Parigi) (in merito, è chiarissimo il cit. § 550 della sentenza).

5) Si tratta di un conteggio di “sicurezza”, perché serve a evitare perdite e danni ulteriori e soprattutto irreversibili, rispetto a quelli già in atto.

6) Il che significa che la mitigazione climatica, lungi dall’essere dipinta come mera libera e insignificante riduzione di emissioni, è attività già dannosa e già rischiosa nell’alimentare ulteriori danni.

Ecco perché, per la Corte di Strasburgo, il “Drop in Ocean Argument” è un costrutto inaccettabile. Esso è infondato e contrario all’art. 2 dell’Accordo di Parigi. In più, dimostrandosi indifferente ai danni già in corso e ai rischi di danni futuri irreversibili, diventa pure contrario alla tutela dei diritti e, nello specifico alla CEDU, il cui articolo 8 tutela gli spazi di vita umana contro rischi e danni sia presenti che futuri.

Ma come si fa a dire che la mitigazione climatica sia “dannosa”? Secondo i negazionisti climatici, una tesi del genere tradirebbe un “dogma”, posto che la CO2, di per sé, non è né tossica né lesiva di diritti specifici (si v., per tutti, il libro di Nicola Porro, La grande bugia verde). Tuttavia, chi nega la “dannosità” della mitigazione climatica dimentica un dato normativo che, piaccia o meno, dagli Stati (e dalla stessa UE) è stato fatto proprio e dunque costituisce parametro di legalità nella risposta alla domanda. Si tratta del costo sociale del carbonio. Esso rappresenta il valore, in termini monetari, dei danni globali, a persone e cose, del cambiamento climatico, attribuibili all’emissione antropogenica in atmosfera di una tonnellata di anidride carbonica (appunto la CO2), aggiuntiva rispetto alle precedenti. In soldoni, ogni tonnellata di CO2 è dannosa, anche quando la quantità di queste tonnellate diminuisce nel tempo (cfr. Quanto costa realmente alla società ogni tonnellata emessa di CO2?).

Ma non basta. Alla luce di questo parametro normativo, è stata elaborata pure la c.d. “1,000-ton Rule” (J.M. Pearce et al,, Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy), che consente nel quantificare i danni futuri causati dalle emissioni di carbonio in termini di mortalità umana (in pratica, un morto ogni 1000 tonnellate di CO2). Insomma, è un falso normativo e scientifico sostenere che la mitigazione climatica realizzi una inoffensiva riduzione di emissioni senza danni e che la CO2 sia innocua.

Tra l’altro, questi effetti dannosi, che si producono comunque anche nella riduzione delle tonnellate di CO2 (in quanto esse appunto riducono gli effetti, ma non li eliminano), si aggiungono agli effetti del riscaldamento globale in sé. Da questa constatazione deriva la previsione del tetto massimo di aumento della temperatura, stabilito dall’art. 2 Accordo di Parigi: al fine di evitare ulteriori danni, le emissioni devono essere ridotte, ma attraverso una mitigazione che operi dentro il tetto di aumento del riscaldamento globale, in modo da non contribuire pure agli ulteriori danni da riscaldamento globale.

Diversamente operando, danni da mitigazione si sommerebbero a danni da riscaldamento globale.

Infine, da questa consapevolezza, deriva un’altra novità dell’Accordo di Parigi, che supera la visione di Kyoto, foriera della libera attuazione degli Stati sulla mitigazione. Si tratta della c.d. “neutralità carbonica”, ovvero la necessità di neutralizzare la riduzione delle emissioni antropogeniche di gas serra, attraverso la loro c.d. “cattura”, naturale (attraverso foreste e oceani) e artificiale (grazie alla tecnologia), in modo che non producano effetti dannosi. 

In conclusione, solo mitigando nel rispetto del tetto massimo di aumento della temperatura globale e neutralizzando le emissioni comunque prodotte ancorché ridotte, si evitano danni, dato che:

– la temperatura media globale (causa di danni da riscaldamento globale) non continuerà ad aumentare;

– le tonnellate di emissioni antropogeniche (causa di danni ancorché non più in aumento e mitigate dentro il tetto della temperatura media globale) saranno “neutralizzate”.

Fuori di questo scenario non c’è la discrezionalità politica. C’è il disastro planetario e finalmente un giudice ha dimostrato di averlo ben chiaro. Quel § 550 della sentenza Verein KlimaSeniorinnen andrebbe consegnato a ogni politico.

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