Legge Calderoli: ostacoli procedurali, rimedi auspicabili, abbagli evitabili

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di Roberta Calvano

La legge 86/2024, meglio nota come legge Calderoli, ha concluso il suo iter con la promulgazione del Capo dello Stato e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale lo scorso 28 giugno. Decorrono quindi ora i termini per le eventuali richieste referendarie popolari o di cinque consigli regionali, nonché i sessanta giorni per l’impugnazione della legge dinanzi alla Corte costituzionale da parte delle Regioni che ritengano lese le proprie competenze.

Più difficile da percorrere la via del giudizio incidentale, che dovrà probabilmente attendere l’attuazione del disegno del legislatore da parte delle leggi di differenziazione, o dei decreti di fissazione degli ormai celeberrimi LEP. Si impone quindi ora al dibattito il tema delle insidie procedurali dei diversi rimedi da intentare, restando la difficoltà del raggiungimento dell’eventuale quorum, o l’improbabilità di un’accoglienza favorevole dei ricorsi da parte della Corte costituzionale, che a breve avrà una composizione diversa, valutazioni prognostiche-politiche del tutto opinabili.

A fronte della preoccupazione suscitata dalla legge n. 86, e dal timore che essa finisca per sciogliere l’armonioso abbraccio tra principio di unità nazionale e principio autonomista di cui all’art. 5 Cost., e che anzi l’unità nazionale rischi in definitiva di andarsene a ramengo, si tenta quindi l’esercizio di valutare i possibili rimedi costituzionalmente previsti da opporre al dettato legislativo, pur nella consapevolezza che chi li dovrà predisporre è già alacremente all’opera.

Premessa necessaria è la considerazione per cui la legge Calderoli è l’unico atto della sequenza che potrà essere sottoposto ad abrogazione referendaria, perché le leggi di differenziazione, in quanto leggi rinforzate, saranno sottratte alle iniziative referendarie. Esiste però il forte rischio che il referendum arrivi troppo tardi, dopo l’approvazione di leggi di differenziazione, che saranno tuttavia aggredibili per la via del giudizio di costituzionalità.

Guardando a questi due principali rimedi si evidenzia la duplice difficoltà derivante dai tempi lunghi del procedimento referendario e dai limiti scrutinati nel giudizio di ammissibilità dei quesiti, alla luce dei precedenti della Corte costituzionale. Chi conosce questa giurisprudenza e la sua incoerenza sa bene che una pluralità di quesiti consentirebbe, come il puntare su più numeri alla roulette anziché su uno solo, di aggirare l’ostacolo dell’imprevedibile applicazione di limiti concernenti la formulazione del quesito, la sua omogeneità, la natura costituzionalmente necessaria del complesso delle disposizioni da abrogare, il loro essere collegate alle materia del bilancio. Un solo quesito abrogativo dell’intera legge rischia infatti di incagliarsi miseramente in un colpo solo su tutti gli scogli del giudizio di ammissibilità, riunendo in un solo quesito la violazione di tutti i limiti richiamati. Sarebbe allora necessario puntare, se i comitati ne avessero le forze, su quesiti plurimi, ed in particolare sulle disposizioni procedurali, e non su quelle concernenti il finanziamento delle funzioni, oltre che su quesiti manipolativi, in aggiunta al quesito totale sull’intera legge.

Ciò, va precisato, ferma restando l’esigenza di percorrere entrambe le strade – referendaria e del giudizio di legittimità costituzionale -, la seconda delle quali è meritevole di particolare attenzione data l’urgenza di attivare un ricorso prima che si giunga all’avvio della differenziazione, portando le istanze delle altre Regioni dinanzi alla Corte costituzionale.

Su questo secondo versante, vanno innanzitutto segnalate le difficoltà che anche un ricorso regionale sconterebbe, per la difficoltà delle Regioni di dimostrare l’interesse ad agire richiesto nel giudizio di costituzionalità, in assenza di norme che ledano direttamente le loro competenze. Come ha sottolineato la Corte nella sent. n. 40 del 2022 sono due le “condizioni costantemente richieste (…) al fine dell’ammissibilità di censure regionali fondate su un parametro estraneo al riparto di competenze: in primo luogo, la chiara individuazione degli ambiti di competenza regionale indirettamente incisi dalla disciplina statale e, in secondo luogo, una illustrazione adeguata del vizio di ridondanza”. Ovvero di come la violazione lamentata di un parametro costituzionale non concernente la competenza “ridondi” in una violazione delle competenze regionali.

Un orientamento della giurisprudenza costituzionale richiede che le Regioni che intendano far valere la violazione dell’art. 81 Cost. dimostrino, allegando documentazione, l’effettiva incidenza sulla loro autonomia finanziaria della norma statale impugnata. La Corte ha affermato (sentt. n. 65 e 10 del 2016, 155 del 2020 e 83 del 2019) che si possono avere riduzioni di risorse senza che sia violata la competenza regionale: “sono pertanto ammesse anche riduzioni delle risorse disponibili, purché tali diminuzioni non rendano impossibile lo svolgimento delle funzioni attribuite agli enti territoriali medesimi”. È stato quindi richiesto alle Regioni ricorrenti di documentare che l’intervento normativo abbia dato luogo ad una insufficienza complessiva dei mezzi finanziari a disposizione e un pregiudizio irreparabile[1]. Questo in definitiva per segnalare l’incerta ammissibilità di ricorsi che facessero leva in modo centrale sulla questione delle risorse[2], che appare cruciale, insieme a quella della scarsa voce in capitolo delle altre Regioni nel procedimento disegnato dalla legge n. 86, circa le decisioni da assumere nel procedimento di differenziazione, e nel monitoraggio sull’andamento della garanzia dei LEP.

Alla luce di tutto ciò sono diverse le iniziative regionali prefigurabili come atte ad aggirare l’ostacolo dell’interesse a ricorrere, aggredendo le norme che vedono una o più Regioni individuabili come dirette destinatarie.

In questa prospettiva si evidenzia innanzitutto l’art. 11 c. 1. Questo articolo fa salve, per tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), le iniziative per la differenziazione da esse avviate prima dell’approvazione della legge Calderoli, consentendo loro di avvalersi di una sorta di corsia preferenziale, a danno però degli attuali consigli regionali, enti locali e popolazioni interessate. Il procedimento che porta alle leggi di differenziazione è infatti lungo e complesso e prevede una serie di interlocuzioni istituzionali che precedono la firma delle intese, all’interno delle singole Regioni e a livello centrale. Nell’art. 11 c. 1 è prevista invece un’accelerazione: per le Regioni che abbiano già avviato le procedure di cui al 116, c. 3, Cost., sono fatte salve le iniziative già avviate, consentendo di evitare così di ripetere il primo step di queste interlocuzioni all’interno delle tre Regioni. In particolare, si deve ritenere che con ciò ci si riferisca quantomeno alla fase della consultazione delle autonomie locali e alla deliberazione della Regione, che precede la negoziazione col Governo sulle intese. La disposizione dell’art. 11, c. 1, nella sua portata di strumento di accelerazione che potenzialmente porterebbe alle leggi di differenziazione per Lombardia e Veneto molto velocemente, potrebbe essere impugnata nella misura in cui, in violazione dello stesso art. 116, c. 3, Cost., lede le prerogative dei consigli regionali e degli enti locali che avrebbero dovuto essere ascoltati. Ciò va rilevato tanto più alla luce del tempo trascorso e del rinnovo delle legislature intercorso due volte dalle iniziative avviate nel 2017. Un simile ricorso potrebbe essere promosso solo da parte di una delle tre Regioni cui essa si applica, presumibilmente l’Emilia Romagna.

Infatti, la Regione Emilia Romagna è l’unica tra le destinatarie della norma – non governata dalle forze politiche che hanno votato a favore della legge n. 86 -, ed essa può dirsi esautorata della fase preliminare di avvio della richiesta di differenziazione in violazione degli artt. 116 c. 3, 5, 3, 121 c. 2.

Va inoltre ricordato[3], che tanto veloce fu la consultazione interna da essa svolta, che ci fu una proposta di risoluzione delle forze di opposizione di centrodestra nel Consiglio regionale dell’Emilia Romagna nel 2020 con cui si chiedeva di «trasmettere a questa Assemblea legislativa lo schema di intesa con il Governo prima della sua formale sottoscrizione in modo che l’Assemblea possa avviare quella fase di consultazione dei Comuni, costituzionalmente prevista, che non può considerarsi esaurita nella semplice acquisizione del parere del Consiglio delle Autonomie Locali o tramite la consultazione di ANCI e UPI». La diversa composizione odierna del CAL richiederebbe comunque di ascoltarne nuovamente i componenti. Essendosi svolto per due volte il rinnovo del Consiglio regionale dopo l’avvio della procedura nel 2017, il rispetto delle competenze del Consiglio, del principio rappresentativo, dell’art. 116. comma 3 e del ruolo in esso attribuito alle autonomie locali, all’epoca non adeguatamente sentite, pone quindi la Regione nella posizione privilegiata di essere l’unica potenziale ricorrente in via diretta contro la disposizione de qua.

Nel corso del giudizio la ricorrente potrebbe poi chiedere la sospensione cautelare delle norme impugnate (come avvenuto già con ord. n. 4/21), precludendone l’applicazione anche nei confronti di Veneto e Lombardia, ex art. 35 l. 87/1953. Ciò perché, “qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini (…) d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’art. 40”[4].

Un’ulteriore specifica lesione delle competenze di una o più Regioni concerne le Regioni speciali, che trovandosi dinanzi ad una trasformazione surrettizia dell’assetto del regionalismo, diverrebbero Regioni speciali “di serie b”, a fronte di un numero di Regioni-differenziate “di serie a” che potrebbero negoziare condizioni ulteriori di autonomia ben oltre quelle concesse dagli statuti speciali. È vero che le cinque Regioni speciali “storiche” sono destinatarie di una norma di favore concernente una sorta di “clausola di maggior favore bis”, contenuta nell’art. 11, c. 2, ma proprio tale norma, nella sua totale indeterminatezza appare del tutto irragionevole e lesiva dell’art. 116, c.1, Cost, ledendo la specialità delle Regioni che diversamente dalle differenziate o neo-speciali, dovrebbero previamente modificare le proprie leggi statutarie per poter accedere all’esercizio di competenze analoghe a quelle differenziate sopraggiunte. Inoltre le Regioni speciali dovrebbero allo stesso modo negoziare per poter pretendere le risorse[5] ed esercitare le competenze che saranno via via attribuite alle Regioni differenziate, ciò ponendole sullo stesso piano di queste ultime. Più in generale tali Regioni potranno essere oggetto di un potenziale “sorpasso” derivante dalla potenziale specialità diffusa per tutte le altre Regioni che si avvarranno della differenziazione, come la legge consente, non potendo limiti rispetto al realizzarsi di questa prospettiva.

Passando ad esaminare qualche idea a prima lettura della legge, circa la formulazione di possibili quesiti, si può innanzitutto appuntare l’attenzione sull’art. 3 comma 3, laddove enumera le materie LEP. Data la crucialità dell’oggetto, questa disposizione potrebbe essere oggetto sia di ricorso che di quesito referendario: cancellare l’elenco permetterebbe di abolire le materie “non LEP”, ri-espandendo le materie LEP oltre questo elenco.

Sul versante del giudizio di costituzionalità, le Regioni avrebbero legittimazione ad impugnare questa norma per violazione degli artt. 3 e 117 c. 2, lett. m, nonché c. 3,  nella misura in cui escludendo alcune materie dai LEP, si esclude la necessità che per esse lo Stato garantisca uniformità di livelli essenziali, finanziando le relative funzioni adeguatamente. Conseguentemente andrebbe impugnato (o coinvolto nel quesito) anche il successivo art. 4, c. 2 nella parte in cui consente che il trasferimento delle materie non LEP avvenga senza attendere la procedura di fissazione dei LEP stessi.

Un punto di difficile aggressione può essere individuato nella clausola di invarianza finanziaria di cui all’art. 9, c. 1, che appare in contrasto con la giurisprudenza della Corte che afferma la priorità della determinazione dei LEP rispetto alla determinazione delle risorse (“una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo [il diritto alla prestazione sociale di natura fondamentale, esso] non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali”[6].

Maggiormente aggredibili appaiono le disposizioni (di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 3), laddove affidando il monitoraggio sui LEP alla commissione paritetica tra Stato e Regione differenzianda, esclude le altre Regioni dalla procedura e dalle “modalità operative per monitorare l’effettiva garanzia in ciascuna Regione dell’erogazione dei LEP in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse, nonché la congruità tra le prestazioni da erogare e le risorse messe a disposizione”. La conferenza unificata avrebbe infatti solo il potere di svolgere raccomandazioni. Il difforme trattamento tra Regioni e Regioni oltre ad essere irragionevole, ridonderebbe in lesione della competenza delle Regioni non differenziate ad esercitare un controllo sull’andamento dell’impiego delle risorse pubbliche, al fine di garantire servizi efficienti sul proprio territorio. Identico ragionamento vale per l’art. 7, c. 4, e per l’art. 8, c. 1, sul monitoraggio degli oneri finanziari, su cui la conferenza unificata riceverà solo un’informativa. Viene previsto che in caso si rendano necessarie variazioni delle aliquote (di compartecipazione al gettito dei tributi erariali che sarà assegnato alle Regioni differenziande) ciò sia deciso d’intesa con la conferenza unificata, nella quale tuttavia il parere delle Regioni non differenziate potrebbe risultare recessivo, mettendo a rischio le risorse necessarie ad esercitare le proprie competenze. Una simile ricostruzione della differenziazione gestita su base pattizia bilaterale tra Stato e singola Regione pare suscettibile di violare l’art. 5, oltre agli artt. 3, 81, 119, c. 4, 117 c. 2, lett m, e c. 3 Cost.

Cuore della disciplina e possibile motivo di ricorso, ma probabilmente debole in termini di interesse a ricorrere, sembra essere l’art. 5 c. 2 secondo cui è l’intesa che individua le quote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali: la violazione degli art. 3, 117., c. 3, 119 e 81, potrebbe discendere dall’assenza, nella legge, di alcuna predeterminazione di criteri. La determinazione nelle intese del quantum delle quote di tributi erariali che verrebbero sottratti al bilancio dello Stato (Svimez calcola una decurtazione di circa il 30% del gettito) andrebbe a ledere l’attribuzione alle altre Regioni delle quote di finanziamento pubblico necessario per le funzioni ad esse attribuite. L’irragionevole indeterminatezza dei criteri di determinazione del quantum ridonderebbe in una lesione dell’interesse delle altre Regioni a godere delle risorse finanziarie in termini di perequazione oltre che di finanziamento dei lep (art. 3, 119 Cost.). Più incerta la via del ricorso per conflitto di attribuzione del singolo parlamentare, che potrebbe essere tentata per sollevare la questione circa l’art. 2, c. 8, che prevede la sola deliberazione delle camere sulle leggi di differenziazione, in violazione dell’art. 72 Cost., essendovi in questo ambito una zona franca del giudizio di costituzionalità (la legge non potrebbe essere impugnata in via incidentale perché difetterebbe la rilevanza della questione).

Di fronte a tale varietà di possibili punti di “aggressione” della disciplina, sorprende che quella che, a detta dei mezzi di informazione, si sia scelto di intraprendere come arma principale, sia la via del quesito unico sull’intera legge. La mente corre immediatamente al caso analogo del quesito concernente la legge n. 40 del 2004, sulla procreazione medicalmente assistita, che la Corte ha dichiarato inammissibile con sent. n. 45 del 2005. Allora ci si ricollegò alla precedente sent. n. 35 del 1997 concernente «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione». Si ricordarono anche le sentt. n. 42 e n. 49 del 2000, che hanno dichiarato l’inammissibilità anche in ipotesi nelle quali la legislazione oggetto della richiesta referendaria garantiva solo il “nucleo costituzionale irrinunciabile” di tutela di un principio costituzionale, nonché la sent. n. 49 del 2000 circa le «leggi costituzionalmente necessarie», «in quanto dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento». Dai casi richiamati sembra emergere che il vincolo costituzionale può anche riferirsi al fatto che una disciplina legislativa, anche di tardiva attuazione del dettato costituzionale, come in questo caso, comunque sussista.

Nel 2005 poi si sanciva come non potesse “obiettarsi che successivamente all’esito referendario, in ipotesi favorevole ai richiedenti, potrebbe essere adottata una diversa legislazione in tema di procreazione medicalmente assistita, ma pur essa idonea a garantire almeno un minimo di tutela agli interessi costituzionalmente rilevanti nella materia: questa Corte ha già avuto occasione di notare nella sent. n. 17 del 1997 che – mentre «sono irrilevanti» … «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata» – «ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito  perché in contrasto con la Costituzione, presentandosi come equivalente ad una domanda di abrogazione di norme o principi costituzionali, anziché di sole norme discrezionalmente poste dal legislatore ordinario e dallo stesso disponibili (sent. n. 16 del 1978 e n. 26 del 1981)». Il rischio che per la Corte questo possa essere il caso della legge Calderoli pare abbastanza elevato. E del resto la stessa Corte proseguiva nel 2005, al punto 6, come si trattasse allora, come oggi, “della prima legislazione organica relativa ad un delicato settore , che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo (…), e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa”. Come si vede, analoghe considerazioni rischiano di essere spendibili oggi nei confronti della legge n. 86. Puntare tutto sullo strumento di un solo quesito che richieda l’abrogazione totale della legge n. 86, che per di più, disciplinando la finanza regionale appare sostanzialmente collegata al limite delle leggi tributarie e di bilancio ex art. 75, c. 2, Cost., oltre ad essere stata inserita formalmente tra i “collegati” all’ultima legge di bilancio, quesito per di più disomogeneo al suo interno, sembrerebbe insomma un inspiegabile quanto evitabile abbaglio.

[1] Sentt. n. 151 del 2016, 182 del 2015, 76 del 2020.

[2] La sentenza n. 220 del 2021 ha anche precisato che “le norme incidenti sull’assetto finanziario degli enti territoriali non possono essere valutate in modo atomistico, ma solo nel contesto della manovra complessiva, che può comprendere norme aventi effetti di segno opposto sulla finanza delle Regioni e degli enti locali (sentenza n. 83 del 2019)”

[3] Come feci in audizione in I Commissione alla Camera il 20 marzo scorso, p. 5, nt. 11, https://documenti.camera.it/leg19/documentiAcquisiti/COM01/Audizioni/leg19.com01.Audizioni.Memoria.PUBBLICO.ideGes.33637.20-03-2024-18-03-30.351.pdf

[4] Che recita “L’esecuzione degli atti che hanno dato luogo al conflitto di attribuzione fra Stato e Regione ovvero tra Regioni può essere, in pendenza di giudizio, sospesa per gravi ragioni, con ordinanza motivata, dalla Corte”.

[5] Tramite l’attribuzione di quote di compartecipazione al gettito di analogo livello.

[6] Sent. n. 62 del 2020, punto 4.4 e 275 del 2016.

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